Al momento stai visualizzando L’ESODO SALVIFICO IN RISPOSTA ALLA CHIAMATA DI DIO “VA’ PER TE”. Un filo rosso tra Abramo e la sposa del Cantico

Maria Cristina Grillini[1]

Abstract

Questo contributo parte dall’assunto che, se tutta la Scrittura è un unico e articolato testo con cui Dio rivela all’uomo sé stesso, l’infinito amore col quale lo ha creato e l’intimo desiderio di relazionarsi con lui, allora ogni essere umano, se vuole conoscere Dio e il suo progetto sul mondo, può attingere al sacro testo per trovare le risposte, indipendentemente dalle coordinate spazio-temporali in cui vive. Se Dio, infatti, attraverso la sua Parola vuole raggiungere il cuore di ciascuno, è piena libertà di ogni uomo scegliere se avventurarsi nella lettura, magari adoperandosi per riconoscere tra le innumerevoli pieghe della Parola i tesori che contiene: in questo gli studiosi dell’antica tradizione rabbinica e i padri della Chiesa (Origene in particolar modo) ci sono maestri. Sulla scia del loro approccio ermeneutico si vuole qui evidenziare come, leggendo insieme la vicenda di Abramo e della sposa del Cantico, alla luce di una particolare locuzione in esse ripetuta, si possano ricavare interessanti e utili indicazioni esistenziali.

Introduzione

Che cosa hanno in comune Abramo e la sposa del Cantico? A prima vista non molto, tranne che entrambi sono parte della straordinaria galleria di personaggi che popolano la Bibbia. Apparentemente sono diversissimi: lui è il patriarca amico di Dio, dalla cui discendenza nacquero le religioni abramitiche e alla cui lunga e drammatica vita la Scrittura dedica ampio spazio,[2] lei invece è una giovane donna innamorata che parla di sé, del suo turbamento e della sua passione all’interno di un breve poema. Di Abramo conosciamo tutte le vicende esistenziali, dalla nascita alla morte, della sposa solo pochi e intensi giorni.
Eppure, già i primi studi esegetici della tradizione rabbinica avevano messo in luce uno stretto collegamento tra Abramo e la sposa quando in Cantico 8,8 («Una sorella piccola abbiamo che non ha ancora seni») leggevano la condizione di Abramo che «ha confessato l’unità (di Dio) poiché non aveva figli»,[3]  sostenendo che, pur vivendo immerso nell’idolatria e prima ancora di conoscere la promessa di Dio circa la sua discendenza (cioè prima di avere i due figli), aveva già in cuore il desiderio di confessare l’unità di Dio. Ma su quali basi si può concepire una simile lettura che a primo acchito appare bizzarra e forzata?

1. Principi di esegesi ebraica e cristiana

Innanzitutto, occorre partire dal presupposto che i testi rivelati[4] sono stati accolti nella tradizione ebraico-cristiana quali strumenti con cui Dio comunica sé stesso all’uomo e al contempo lo conduce alla sua natura più profonda: quella di creatura pensata a immagine e somiglianza del suo Creatore, con la quale egli desidera entrare in relazione nel rispetto della sua libertà. Dunque, tutta la Bibbia contiene la rivelazione di Dio e ogni suo libro è degno di venerazione. Ma se è noto a tutti che il Pentateuco abbia un ruolo di primaria importanza e in esso la vicenda di Abramo, alla quale Genesi dedica 15 capitoli su 50, può sorprendere invece che, secondo la tradizione ebraica, il Cantico dei Cantici sia addirittura il vertice della rivelazione. Si ritiene infatti che fu Salomone a scriverlo, ispirato dallo Spirito, come consolazione e profezia per Israele, affinché questo, in tempi di difficoltà, potesse trovare la forza e la strada per riconciliarsi con Dio.[5]
Nel Cantico, celati nel dialogo tra lo sposo e la sposa, vengono rievocati i momenti concreti della storia d’amore di Dio per il suo popolo e vengono anticipati eventi futuri nei quali questo amore si manifesterà. Si tratta di un testo completamente pervaso dalla speranza nel Messia che restaurerà il mondo. Israele, dunque, rilegge il Cantico come un dialogo tra il Messia, impersonato dallo sposo, e sé stesso, incarnato dalla sposa.
In generale, l’esegesi rabbinica si basa sulla precisa convinzione che ogni elemento della Scrittura non abbia solo un valore contestuale, ma anche e soprattutto come ricordo dell’alleanza salvifica con Dio o come anticipazione profetica della venuta del Messia; sia che questa lettura appaia evidente dal testo, sia che debba essere ricercata in un riferimento implicito. Per questo motivo ogni allusione ed ogni accenno, per quanto apparentemente generici o poco connotati, sono sempre intesi in relazione a un accadimento da esplicitare, perché possa essere di edificazione per il fedele.
Alla luce di quanto esposto, cioè della ispirazione unitaria della Bibbia, del significato apicale del Cantico e del particolare modo di porre attenzione ad ogni iota della Scrittura, l’accostamento di Abramo alla sposa appare ora meno artificioso.
Anche nell’ambito dell’esegesi patristica troviamo la stessa considerazione per il Cantico e la stessa determinazione a scavare la sacra pagina. Origene affermava «beato chi penetra nel Santo, ma più beato chi penetra nel Santo dei santi […]; beato chi comprende e canta i cantici [della Scrittura] […], ma molto più beato chi canta il Cantico dei Cantici»[6] e ne raccomandava lo studio, ma solo al raggiungimento di una adeguata maturità spirituale, per non correre il rischio di farsi distrarre dalla lettera del testo. Seguendo i criteri ermeneutici propri della sua esegesi, Origene riconosce nelle vesti della sposa sia la Chiesa sia l’anima che cerca la perfezione spirituale e in quelle dello sposo, Cristo. Il Cantico è visto perciò come un dialogo d’amore in cui si dipana l’azione pedagogica progressiva di Cristo a favore della Chiesa (o dell’anima) ormai desiderosa di unirsi a lui senza alcuna mediazione dei profeti che lo hanno preceduto.
L’esegesi cristiana contemporanea, invece, legge il Cantico recuperando quella dimensione terrena dell’amore messa in ombra dalle interpretazioni precedenti.[7] In ottica antropologica la coppia del Cantico viene comunemente messa in relazione a quella genesiaca per evidenziare rispetto ad essa il virtuoso dono di sé. Mentre Adamo ed Eva hanno esercitato il libero arbitrio in modo distruttivo, non fidandosi né di Dio né di loro stessi, al contrario la sposa e lo sposo recuperano la fiducia, vivono l’amore come dono reciproco e riportano le dinamiche di coppia al progetto originario di Dio.[8] Inoltre, più volte il Cantico affronta il tema del valore del corpo. Gli amanti cantano con immagini poetiche e sensuali la bellezza dell’altro, a ricordare che l’amore di coppia è anche fisicità e che la sessualità è voluta da Dio. La sposa che dice «io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» mostra come l’amore sia un dono reciproco e il suo dialogare con l’amato sottolinea che tale amore non crea una fusione, ma è un incontro che conserva intatto il mistero dell’alterità; nessuno è padrone dell’altro, né del suo corpo, né della sua mente; scoprire l’amore significa scoprire l’inviolabilità della persona.
C’è poi nel Cantico una dimensione d’inquietudine: da un lato l’amore è dono reciproco, dall’altro è continua e inappagata ricerca, da una parte lo slancio inesauribile mosso dal desiderio, dall’altra l’irriducibile alterità. Questa combinazione di prossimità e distanza, vissuta nel contesto dell’amore umano rimanda all’analoga dinamica del rapporto di amore con Dio. Imparare l’arte dell’amore vicendevole fa crescere anche nell’arte di amare il Signore.
Una volta appurata l’importanza della sposa del Cantico nell’intera riflessione spirituale, dagli antichi maestri fino ad oggi, così da poterla avvicinare senza troppa sproporzione alla figura di Abramo, resta da chiarire in base a quale specifico elemento lo si possa fare.

2. Il collegamento: Lek-leka (o: Leki-lak)

Sia l’esegesi rabbinica che quella origeniana hanno fatto grande ricorso alla tecnica delle concordanze per individuare collegamenti testuali all’interno della Scrittura. Una concordanza si verifica quando «una parola o una radice linguistica […] ricorre all’interno di un testo, una serie di testi o un brano, in maniera estremamente significativa in modo che, quando si indaga su tali ripetizioni, il significato del testo viene spiegato o diviene chiaro al lettore, o almeno è rivelato in misura molto superiore»[9].
Analizzando il testo masoretico relativo alle vicende di Abramo e della sposa, si rileva una interessante ricorrenza data dalla locuzione לְכִי־לָֽךְ (lek-leka o leki lak) che si ripete identica quattro volte, due in Genesi e due nel Cantico, nella forma maschile o femminile. Essa viene usualmente tradotta con va’ oppure vattene, l’ordine di mettersi in movimento impartito dal soggetto che lo pronuncia al suo interlocutore. Le prime due ricorrenze sono notissime:

(Gen 12,1) Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.

(Gen 22,2) …Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò.

Meno familiari sono forse le altre due:

(Ct 2,10) Ora l’amato mio prende a dirmi: “Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!

(Ct 2,13) Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Azati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!

Come è evidente la versione italiana non rende giustizia alla concordanza perché il verbo ebraico הלך (halak)che significa camminare, muoversi, e per estensione andare, venire, non distingue il verso della percorrenza, specificato invece nella traduzione. Ma la ripetizione c’è ed è estremamente significativa se si considera che, nonostante il verbo halak sia comunissimo nell’Antico Testamento, le quattro ricorrenze indicate sono le sole in tutta la Scrittura in cui compare in quella specifica forma e declinazione.[10] Più precisamente si tratta del raro uso del verbo «halak», con forma qal, al modo imperativo, alla seconda persona singolare, con l’aggiunta del dativo etico. Quest’ultimo si usa per indicare la partecipazione, il coinvolgimento emotivo o il vantaggio di una persona rispetto a un’azione o a una circostanza indicata dal predicato. Quindi, una traduzione più precisa per mettere in luce le sfumature di questa particolare forma potrebbe essere, non tanto va’ o vattene, ma va’ per te, è bene per te andare e, analogamente, non vieni, ma vieni per te, è un vantaggio per te venire.
Si tratta di imperativi divini, inviti che il Signore, in prima persona o adombrato in una figura che tradizionalmente lo rappresenta (il Messia per gli ebrei e Cristo per i cristiani), rivolge con enfasi all’uomo perché dalla loro esecuzione dipenderà un suo vantaggio. Ma quale vantaggio? Naturalmente agli occhi del Signore il vantaggio per eccellenza non può che essere la piena realizzazione di sé come persona a immagine di Dio secondo il suo progetto iniziale, in relazione di amicizia con lui e con i fratelli, ristabilendo con l’esercizio del libero arbitrio la primigenia armonia compromessa dal peccato originale.

3. Va’ per te: l’esodo di Abramo e della Sposa

A questo punto, alla luce della concordanza data dall’uso dell’imperativo con dativo etico del verbo halak alla seconda persona singolare (lek-leka/leki-lak), si può tentare una lettura d’insieme.
Con i due imperativi di Genesi,Dio, dall’alto dei Cieli e attraverso la figura di Abramo, comunica al lettore il percorso spirituale da intraprendere per raggiungerlo:

Genesi 12,1. Va’ per te, lascia la tua terra e va’, abbandona l’idea di contare solo su te stesso, di affidare alle tue sole capacità la ricerca di senso e di realizzazione, di gestire l’inquietudine con i soli tuoi mezzi, io ci sono, fidati di me.

Il solo modo per entrare in relazione con il Signore è innanzitutto quello di comprendere che siamo creature che vivono in una realtà contingente, ma al tempo stesso chiamate alla trascendenza.

Genesi 22,2. Va’ per te, va’ verso il Monte Moria, è un passaggio ulteriore: ti sei fidato, hai abbandonato gli idoli e hai coltivato l’amicizia con me, ma qualcosa si può ancora frapporre tra noi. Nelle prove più impegnative potrà riemergere il desiderio di fare da solo, la fede potrà vacillare e sarà difficile mettere Dio al primo posto.

Confida totalmente in me è l’invito del Signore a non perdersi d’animo, lasciando ogni residua fiducia di trovare solo in sé le risorse per affrontare i problemi e raggiungere la felicità, nel ricordo dell’esempio di Abramo.
Nella lettura del Cantico è opportuno ampliare un poco lo sguardo e considerare altri dativi etici, oltre a quelli già evidenziati (leki-lak): o perché sono a loro coordinati nello stesso versetto (alzati e va’) oppure perché si riferiscono al medesimo verbo (halak) pur con soggetto e tempo diversi (se n’è andata, me ne andrò). Con questi ulteriori elementi il messaggio di Cristo è chiaro. Il Verbo incarnato insegna che nella concretezza dell’esistenza è possibile intraprendere il percorso spirituale che conduce a Dio. Cristo invita ad un incontro personale nei sacramenti, nella preghiera, ma anche nell’amore umano verso il proprio sposo o la propria sposa o in generale verso una persona cara:

Cantico 2,10. Alzati … e va’ (o anche, alzati… e vieni)[11] sono le parole che Cristo rivolge al battezzato, perché prenda coscienza delle inedite potenzialità offerte dalla grazia.

Alzati è espresso con qum, verbo che nel Nuovo Testamento allude alla risurrezione e anch’esso è nella forma del dativo etico.[12] È interessante notare che l’evangelista Marco, nell’episodio della figlia di Giairo riportata alla vita, ha voluto ricordare le parole di Cristo direttamente in aramaico: talità qum (Mc 5,41) a perenne memoria del significato salvifico del termine.
Alzati per te e Vieni per te sono l’indicazione ad accogliere attivamente il dono inestimabile del battesimo e, sospinti dalla grazia, a lasciarsi attrarre da Cristo, nella consapevolezza che queste azioni sono a proprio pieno beneficio. In Cristo, infatti, quello che è impossibile in quanto creature umane, cioè liberarsi da ogni forma di egoismo, diventa un cammino praticabile.

Cantico 2,11. Se n’è andata la pioggia, cioè il tempo dei profeti è finito.[13] Il tempo è compiuto: ora c’è il Verbo con la sua grazia.

Cantico 2,13[14]. Alzati … e va’. L’appello che Cristo rivolge al lettore si chiude qui con le stesse parole con cui si era aperto: «Alzati, mia amata, e vieni!». È un invito all’abbandono totale al suo amore sullo sfondo di una nuova creazione; è un appello a uscire dal proprio mondo chiuso e a effondere intorno a sé l’entusiasmo primaverile che l’amore produce nel cuore.[15] E qual è l’intorno più prossimo se non la persona con la quale si è uniti inscindibilmente nel vincolo sacramentale del matrimonio? Riversare sul proprio sposo o sulla propria sposa l’amore e l’entusiasmo che si riceve dallo Sposo, sembra essere l’inevitabile conclusione. Ma l’amore coniugale non è solo il punto d’arrivo della capacità di donarsi che ci insegna Cristo, è anche l’elemento di partenza per un movimento contrario. Infatti, nella gioiosa relazione sponsale, soprattutto se vivificata dalla grazia, si sperimenta concretamente la partecipazione emotiva e insieme realissima, nel mistero del matrimonio (cfr. Ef 5,32), verso un’alterità che ci sta di fronte e che possiamo toccare, figura che modella il trasporto del cuore verso Cristo.

Senza un riferimento terreno su cui costruirla, la propria relazione con Cristo, vero Dio ma anche vero uomo, rischia di restare confinata nel campo della immaginazione o dell’esercizio intellettuale. La possibilità di “sovrapporre” l’amore per il proprio sposo o la propria sposa con l’amore mistico per Cristo può essere invece di grande aiuto per raggiungere e conservare, pur con estrema semplicità, la freschezza di un genuino coinvolgimento.

Cantico 4,6. Me ne andrò.[16] Cristo è la meta, l’omega a cui il lettore tende, ma al tempo stesso il lettore è meta dell’amore di Cristo. È profondamente toccante questa chiusura della sequenza dei dativi etici legati al verbo andare, perché conferma come l’amicizia di Dio per noi sia mossa dalla sua infinita misericordia, ma abbia la sua radice più profonda in un personale e insopprimibile slancio del suo amore.

Conclusione

Quello che appare sembra essere un itinerario, articolato in due movimenti sincronici: uno “verticale”, mistico, sull’esempio di Abramo e uno “orizzontale”, concreto, che porta ad uscire dalle proprie anguste ma comode certezze per avventurarsi nel mistero dell’altro, sia attraverso la vocazione matrimoniale vissuta in Cristo, sia con ogni altra forma di donazione di sé. Questo itinerario invita a non ripiegarsi mai su di sé, ma a percorrere il proprio personale esodo verso la Gerusalemme Celeste.


[1] Studentessa iscritta al corso di Licenza in Scienze Religiose presso l’ISSR dell’Emilia. Il presente articolo è tratto dalla tesi finale del corso di Baccalaureato: La Scrittura parla al cuore. Ebraismo e cristianesimo in dialogo: Il sacrificio di Isacco e il Cantico dei Cantici.

[2] Da Gen 11,27 a Gen 25,10.

[3] Bereshit Rabbah 39:3. Fondamentale opera di esegesi midrashica del III – V sec. Attraverso un gioco di parole possibile in ebraico «sorella (ahot)» diviene «egli ha confessato l’unità (ihah [iyed])» e «non ha ancora seni (shadayim)» diviene «poiché egli ancora (she – ’adayin) non aveva figli».

[4] Naturalmente per la tradizione ebraica i testi rivelati si limitano all’Antico Testamento, mentre per quella cristiana includono anche il Nuovo.

[5] «Quando scrisse il Cantico, Salomone vide in Spirito Santo che i figli d’Israele avrebbero subito diverse deportazioni e diversi eccidi, e che nel loro esilio avrebbero avuto nostalgia della gloria di un tempo, quando erano il possesso peculiare di Dio fra tutti i popoli (Cfr. Es 19,5); e che avrebbero detto: Andrò, e ritornerò al mio primo marito, perché era meglio allora che adesso, per me (Os 2,9); e che si sarebbero ricordati delle sue misericordie, dei peccati da loro commessi, e dei beni che egli disse che avrebbe loro dato negli ultimi tempi». Rashi, Commento al Cantico dei Cantici, Prefazione.

[6] Origene, Omelie sul Cantico dei Cantici 1,1.

[7] Cfr. L. Mazzinghi, Cantico dei Cantici, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 2011, 24-32.

[8] Il termine «brama», che compare in entrambe le narrazioni, esprime bene la diversa prospettiva d’azione: in Gen 3,16 ha valore negativo ed è legato al dominio, in Ct 7,11 invece è il positivo motore del donarsi vicendevole.

[9] Definizione di Leitwort (parola guida) data dal filosofo e teologo ebreo Martin Buber. M. Buber, Darko shel Mikra, Mosad Byaliḳ, 1977, 284.

[10] Le sole quattro occorrenze sono in Genesi con riferimento ad Abramo (Gen 12,1; 22,2) e nel Cantico (Ct 2,10.13), come confermato da: Gesenius, W., E.Kautzsch &; A.E. Cowley (ed.), Gesenius’ Hebrew Grammar, Clarendon Press, Oxford 1910, § 119, p. 347. Vedere anche la voce “הלך” in Brown F. – Driver S.R. – Briggs. C.A., A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament, Oxford, 1906.

[11] L. Mazzinghi, Cantico dei Cantici, 53, commenta così il versetto 2,10: «E va’ וּלְכִי־לָֽךְ)) – Soltanto in Gen 12,1 e 22,3 (cfr. anche Gs 22,4) l’imperativo del verbo הלך (andare)è seguito dal cosiddetto dativo etico (qui al femminile, per te). Il senso non è tanto quello di venire, quanto di andarsene, partirsene per proprio conto, quasi che si sottintendesse “è bene per te che tu vada”». Il verbo הלך si presta infatti ad essere tradotto sia con andare che con venire.

[12] Ivi 54, con riferimento al versetto 2,13: «Alzati (ק֥וּמִי לָ֛ךְ) dove לָ֛ךְ è un altro dativo etico».

[13] Il tempo è un perfetto (e non imperativo), ma c’è ancora un dativo etico, alla terza persona maschile, per sé: È bene per sé che vada (הָלַךְ לֽוֹ)è opportuno per i profeti che il loro tempo sia finito perché l’avvento di Cristo illumina le loro profezie e mostra il loro significato compiuto. Facciamo nostra una lettura “origeniana” del testo.

[14] È interessante considerare nella lettura d’insieme anche i versetti Ct 2,11; 4,6, nei quali compare l’imperativo halak qal con dativo etico, ma con soggetto diverso (terza e prima persona singolare).

[15] Ho riscritto in chiave personale il commento di Ravasi: “Il primo appello del giovane si chiude con le stesse parole con cui si era aperto: «Alzati, mia amata, mia bella e vieni via!». È un invito all’abbandono totale dell’amore sullo sfondo di una nuova creazione; è un appello a uscire dal proprio mondo chiuso e a effondere nell’umanità questo entusiasmo primaverile che l’amore produce nel cuore. Semplicità, novità, freschezza sono le qualità sorprendenti dell’amore”; G. Ravasi, Cantico dei Cantici, Edizioni Paoline, Milano 1985, 83.

[16] Il tempo è un imperfetto, ma c’è ancora un dativo etico. È lo sposo che parla e desidera andare verso la sposa, per incontrarla. La invita al monte della mirra che allude al monte Moria, luogo della prova di Abramo, meta dell’imperativo divino di Genesi 22. È bene per lo Sposo andare là dove la creatura amata è stata convocata da Dio, perché è suo profondo desiderio l’incontro beatifico con lei.