Michela Casinelli[1]
Abstract
Le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del loro agire, forniscono risposte di rara semplicità: ho fatto quel che dovevo, chiunque avrebbe fatto lo stesso, non c’era altro da fare… Il che non significa che dietro l’azione non ci sia un pensiero. Il pensiero c’è, ma è radicalmente semplice, nel senso che è essenziale, sa dov’è l’essenza delle cose. Questo pensiero è passione per il bene dell’altro, con una forza etica che non viene prima della coscienza, ma piuttosto, è la voce di una coscienza che sa ciò che è irrinunciabile e da lì orienta il suo essere.
Nell’aver cura, si risponde alla chiamata, propriamente umana, ad avere a cuore la vita. Con questo articolo, dunque, si vuole approfondire tale tematica nell’ambito delle pratiche educative scolastiche e in particolare dell’Idr.
Introduzione e quadro teoretico di riferimento
Il presente lavoro parte dalla constatazione che il rapportarsi all’esistere, avendone cura, è un esistenziale che ha il tratto della necessità; perché da subito, e per tutto il tempo della vita, l’essere umano si trova ad aver bisogno di cure, a doversi occupare di sé, degli altri e delle cose che lo circondano come prima necessità della vita umana. Questa inaggirabile necessità, che rivela la precarietà della condizione umana, rappresenta la condizione per far esperienza del senso autentico dell’esserci, perché, nel prendersi cura, si risponde alla chiamata, propriamente umana, di avere a cuore la vita.
Passando da Heidegger fino a Ricoeur per comprendere che avere cura è far fiorire le potenzialità in cui si realizza l’umanità dell’esserci anche quando il dolore del corpo o dell’anima rende difficile il nostro cammino nel tempo. Heidegger veicola attraverso l’aver cura, il compimento al proprio e all’altrui divenire; per Ricoeur la cura è sollecitudine verso l’altro, e costitutivo dell’altro. La riflessione attinge poi al contributo degli studi dell’etica con le filosofe femministe le quali, hanno visto nella cura, la chiave per la comprensione dell’esistenza umana. Ci si muove così verso un’idea di cura come pratica agita verso sé stesso e verso l’altro, da pratica morale a pratica pedagogica, nella quale la cura diventa essenziale, fino ad arrivare al vulnus di questa esposizione, la pedagogia di Gesù, fonte inesauribile di esempi di relazioni che curano. Egli conosce la realtà della Creazione e sa che l’uomo e la donna sono immagine di Dio, meraviglia ai Suoi occhi, ed entrambi coinvolti e cooperatori all’opera educatrice del Padre, sono capaci di prendersi cura e stabilire relazioni vere con ogni persona. E questo, diventa il punto di partenza, il cuore e il fine di ogni azione educativa che a Cristo vuole ispirarsi, soprattutto per l’insegnante di religione cattolica, nel quale la cura diventa sintesi e denominatore comune a tutte le competenze già richieste a questa figura.
Questo lavoro quindi, si esplica in tre ambiti di approfondimento: la necessità che abbiamo definito ontologica della cura, la cura che diventa pratica etica e pedagogica e il tutto declinato al campo applicativo dell’azione educativa con un occhio particolare all’ IRC.
1. Necessità ontologica della cura
Il venire al mondo per i nati da donna, è sempre un venire al mondo condizionato dalla cura dei generanti e della madre innanzitutto. Si parla a riguardo di primarietà ontologica della cura, sia perché è il ricevere cura che genera la possibilità di esserci, sia perché quella primaria relazione di cura che abbiamo con la madre lascerà per sempre una memoria di relazione per il figlio e la madre stessa.[2]
In nessun’altra esperienza una donna percepisce, allo stesso tempo, la generosità e la fragilità dell’essere, fa esperienza quasi forzata della necessità di essere portatrice di cura, perché dentro sé c’è un altro da sé. E se ci si riconosce debitori verso qualcuno, verso la vita, è allora che dentro di sé si sente come una spinta ad interessarsi all’altro.
Quando nel secolo scorso veniva chiesto in un’aula universitaria, all’antropologa statunitense Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura, la platea rimase stupita quando la Mead rispose che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò infatti la Mead che nessun animale in natura sopravvive ad un osso rotto abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto poi guarito, è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con lui, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e se ne è preso cura. Margaret Mead concludeva dicendo che farsi carico di qualcuno, prendersi cura di lui, è il punto preciso in cui la civiltà inizia.[3]
Contemporaneo della Mead è Martin Heidegger filosofo tedesco che già un secolo fa parlava della cura come di un’apriorità esistenziale, molto più che un atto di attenzione o di premura verso qualcuno, la cura rientra invece nella dimensione ontologica, strutturale della persona; secondo Heidegger, l’uomo non è uno che ha cura, ma è egli stesso cura. Proprio perché secondo il filosofo, la cura non è una semplice virtù o un atto singolo, ma è un modo di essere, cioè il modo dell’uomo di essere nel mondo, è il modo in cui la persona stabilisce le relazioni con gli altri e con le cose.[4]
Mosso dalla stessa tensione Paul Ricoeur, il quale afferma che per aspirare ad una vita buona, occorre un esistenzialismo relazionale, dove la persona non può sussistere isolatamente ed indipendentemente dall’altro. L’essere si costituisce attraverso l’interattività, in relazione con l’altro, quale continuo divenire, continua creazione, continuo compito. In tal senso la prossimità, la sollecitudine, la cura verso l’altro sono strumenti fondamentali per la formazione del «sé». Educare al senso dell’altro rappresenta per Ricoeur la maggiore opportunità per la piena attuazione della persona. E sono modalità privilegiate per attivare un’autentica relazione con l’altro.[5]
La mia riflessione prosegue poi coinvolgendo il contributo degli studi dell’etica e specialmente di quella branca che prende il nome di etica della cura, filone di pensiero che, agli inizi degli anni Ottanta, vede coinvolte diverse voci femminili anglo americane (come Carol Gilligan, Nel Noddings, Sara Ruddick, Joan Tronto). Che verranno chiamate le filosofe femministe.
Il nucleo etico che caratterizza queste filosofe è l’affermazione che la cura è un processo continuo, una pratica agita non soltanto verso l’altro, ma anche verso gli oggetti, l’ambiente, il mondo intero. E, indagando il rapporto che ha visto per secoli la cura come dimensione legata al mondo femminile, nel quale la relazione materna rappresentava la pratica di cura per eccellenza, hanno inteso in realtà liberare concettualmente la cura, dal suo tradizionale nesso con l’universo femminile. L’etica della cura richiama ad un certo tipo di impegno e di responsabilità nei confronti dell’altro, delle cose e dell’ambiente ai quali ognuno di noi deve sentirsi chiamato, uomo e donna insieme.[6]
2. La cura come pratica etica e pedagogica
Tutto questo pensiero filosofico antropologico, trova un felice punto di sintesi nel pensiero contemporaneo della pedagogista Luigina Mortari, protagonista della seconda parte di questa riflessione. La Mortari, definisce la cura come una pratica eticamente informata. Afferma che se l’etica è l’interrogarsi sulla qualità della vita buona, la cura è un agire informato, quindi orientato, alla ricerca di ciò che è bene, al desiderio di promuovere una vita buona per sé e per gli altri.[7] Tre le direzionalità secondo la Mortari nelle quali si condensa l’essenza dell’eticità della cura: sentirsi responsabile, rispettare il mistero dell’altro, agire in modo donativo.
Il primo carattere, il sentirsi responsabile, si attiva quando, riconoscendo l’altro e sé stesso mancanti e vulnerabili, si sente che attraverso quella presa in carico ne va del bene che si sta cercando. E la cosa si sente necessaria quando si crede che il mio bene parte dalla relazione con l’altro.
Rispettare il mistero dell’altro, vuol dire riconoscere innanzitutto l’altro come qualcosa di più grande di ogni idea costruita su di lui ed anche più grande del bene che si prova per lui. L’altro infatti dovrà essere incontrato nella sua singolarità che non sarà mai manifesta totalmente.
Agire in modo donativo, infine, vuol dire dedicare ad altri tempo ed energie in modo gratuito. E sottolinea che la più alta forma di cura è donare tempo a qualcuno perché come diceva già Seneca «è l’unico bene che nemmeno una persona riconoscente può restituire».
E la Mortari riunisce e analizza nei suoi testi gli indicatori del aver cura in campo pedagogico educativo che sono l’essenza della pratica dell’aver cura.[8] E questi sono:
- Ricettività, capacità di fare posto all’altro dentro di sé per accoglierlo
- Responsività, saper rispondere agli appelli dell’altro
- Disponibilità cognitiva ed emotiva,
- Empatia quel“sentire con”che consente a un soggetto di avvertire l’altro nel suo essere proprio
- Attenzione, di una certa qualità, un’attenzione sensibile che si presenta come uno sforzo vigile sull’altro così che niente del suo vissuto vada perduto.
- Ascolto e quindi avere tempo per mettersi in ascolto
- Saggezza intesa come la Fronesis aristotelica, una competenza complessa che si nutre sia delle ragioni del cuore sia di quelle dell’intelletto, per operare una scelta giusta nel caso concreto
- Passività attiva, un modo di essere accanto all’altro non intrusivo. Ma considerandolo un mistero.
- Riflessività, prezioso interrogarsi sull’esperienza che si sta vivendo, coltivando un atteggiamento riflessivo in merito al proprio operato per conoscere quali tonalità emotive esercitano una sensibile forza in noi.
- Cura di sé stesso, attraverso un processo di attenzione al proprio sentire che conduce a nutrire la propria anima attraverso un costante lavoro per lo sviluppo della propria interiorità.
3. La cura nell’insegnamento della religione cattolica
L’analisi teoretica appena esposta, può essere declinata all’insegnamento ed in particolare all’IRC.
L’etica della cura, applicata in campo educativo, ha un fine preciso: a partire da una relazione asimmetrica, conduce l’altro nelle condizioni di provvedere da sé ai propri bisogni. Gino Corallo definisce l’educatore inutile, perché afferma che il compito fondamentale dell’educazione è quello di liberare l’allievo guidandolo verso la libertà.[9]
E se è emerso come la relazione di cura con l’altro, le cose e il mondo siano costitutive dell’essere umano, ancor di più per noi cristiani questo non è solo un dato antropologico esistenziale, ma teologale, perché Dio è relazione e quindi rapporto.
Come insegnanti di religione siamo chiamati ad aver presente nel nostro lavoro soprattutto la pedagogia di Gesù, fonte inesauribile di esempi di relazioni che curano.
La consegna definitiva che Egli fa ai suoi discepoli, di allora e di ogni tempo, si trova espressa nel comandamento nuovo dell’amore: «che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato a voi» (Gv 13,34) e affinché i cristiani possano vivere tale consegna è necessario che conoscano e facciano proprio il “come” del suo amore. In fondo possiamo qualificare come educativo ogni tipo di rapporto vissuto da Gesù con gli altri. La sua pedagogia è stata definita vocazionale perché ogni azione di Gesù è sempre salvifica, il suo desiderio è quello di portare tutti in Paradiso.[10]
Il più grande gesto di cura che Dio fa nei confronti dell’umanità è la sua kénosis: questo movimento amoroso di Dio che viene incontro all’uomo, e che fa sì che l’incontro con Dio diventi alla portata dell’uomo stesso.
La pedagogia di Gesù si fonda tutta sull’incontro, nella sua vita terrena ha sempre cercato l’incontro con un tu personale, anche in mezzo alla folla che lo seguiva, Lui cercava uno sguardo: «Chi mi ha toccato le vesti?» grida in Marco 5,30 quando cercava l’emorroissa in mezzo alla folla.
La cura che esercita Gesù si traduce inoltre, nella pratica della compassione, della misericordia verso la gente, la sensibilità autentica verso l’umanità dell’altro. Nella Sua pedagogia è sempre presente la dimensione della cordialità, dell’amicizia, dell’amore.[11]
L’episodio della lavanda dei piedi, ha una carica educativa straordinaria perché vuole dire mettersi a servizio della libertà dell’altro, accompagnarlo senza condizionare, affiancarlo senza vincolare, nella libertà, tanto cara a Gesù, perché libera è la sua proposta e libera l’adesione, e per questo autentica.
E così se, come cristiani, apparteniamo a Lui e siamo fatti di Lui, come non portare le Sue mani che curano e il Suo sguardo benedicente nel nostro lavoro, qualunque esso sia, e a maggior ragione come insegnanti di religione cattolica!
Il mandato che l’insegnante di religione cattolica riceve dalla Chiesa,[12] richiede oltre alla competenza professionale, anche un’altra competenza che gli viene dal suo essere uomo o una donna di fede.
Il cuore della professione di un insegnante di religione cattolica è la sua spiritualità, e il modo con cui egli la vive e la interpreta. Si tratta di una spiritualità incarnata non necessariamente manifesta che possiede il gusto per quello che si insegna. Nel suo modus agendi, l’IRC dovrebbe trasparire di quella luce, a partire dalla relazione con gli studenti ma anche con i colleghi e i genitori. Una luce che irradia e attrae, come diceva Romano Guardini.[13]
Papa Francesco ricorda nella Laudato sì che dobbiamo prenderci cura dello stato di salute delle istituzioni e della società,[14] e la scuola è un’istituzione sociale fondamentale. D’altronde anche i testi biblici ci invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo (Gn 2,15) e così la scuola diventa quel giardino da coltivare e custodire contribuendo alla creazione continua.
L’offerta formativa dell’IRC è questo seme prezioso da coltivare in un terreno che è il mondo relazionale scolastico, pieno di insidie soprattutto per gli insegnanti, un terreno, piuttosto che arido, preferirei dire assetato, che necessita di nuovi semi educativi e tanta acqua benedicente.
La disciplina scolastica dell’Irc, in effetti, ha già in sé molte potenzialità per andare incontro con significatività alla condizione umana odierna e alle sue esigenze educative.
4. I campi di azione dell’insegnante di religione
Concretamente il contributo che tale insegnamento può portare, si articola su tre nodi fondamentali. Il primo riguarda la conoscenza e la cura di sé; infatti lo studio della religione e la filosofia offrono risposte alle domande di senso che abitano l’uomo, e avviano percorsi di riflessione e interiorizzazione antropologica. Il secondo, invece, ha a che fare con la cura nella relazione con gli altri; la religione infatti rappresenta la modalità interpretativa della vita umana in rapporto agli altri e alla trascendenza. L’ultimo nodo ha come tema quello dell’orientamento, ovvero ha a che fare con l’essere in grado di pensare, progettare e scegliere il proprio futuro in vista e in relazione alla solidarietà e libertà individuale, (vissute come apertura e spirito di collaborazione nella propria realtà di vita).[15]
All’insegnante IRC viene chiesto di agire con cura e prossimità verso ogni suo alunno, coltivando semi di speranza. È ancora Papa Francesco a suggerire un nuovo linguaggio come nuova via educativa: un linguaggio del cuore, una mediazione messa in atto dall’insegnante che non soffochi le emozioni, bensì le ospiti nei percorsi di apprendimento come volano di ricerca e di maturazione verso sentimenti più ponderati.[16]
L’insegnante di religione, dovrebbe avere una grande apertura antropologica, perché è sempre in dialogo di riconciliazione con gli altri, con sé stesso, con Dio. L’IRC difende una buona notizia, e dovrebbe avere un approccio sapienziale alla vita, scorgendo tratti di infinito nella quotidianità. Si pone come obiettivo quello della formazione globale della persona, e dovrebbe essere capace di andare in profondità e cogliere ogni sfumatura dell’esperienza umana.
Un esempio tra tutti la visione cristiano-cattolica della fraternità universale, in termini di cura nell’azione educativa, questa si può tradurre in uno sguardo benedicente sull’altro, in una prossimità che ha il sapore della compassione dove la responsabilità per l’altro non è un dovere morale, ma uno slancio esistenziale e dove il rispetto della diversità non è un obbligo etico, ma un vero e proprio celebrare tutta la creazione.
In questa logica tutto ciò che appartiene ai valori umani può trovare uno sviluppo ed un ulteriore significato nel IRC; a loro volta i valori religiosi cristiani proposti agli alunni possono trovare un’importante presupposto nei valori umani oggettivamente riconosciuti.[17]
La relazione educativa, vissuta secondo questa cura e queste particolari attenzioni, può garantire un risultato importante per l’insegnante: la conquista della fiducia da parte degli alunni.
La fiducia è il prerequisito di un dialogo leale, che può trasformare l’apprendimento in un nuovo modo di vivere; ma può anche contribuire a motivare l’apprendimento dei contenuti religiosi e a favorire le decisioni esistenziali che ogni alunno può prendere in presenza di una nuova visione della vita.[18]
Fidarsi dell’insegnante significa, infatti, poter avere un punto di riferimento non solo per la conoscenza, ma anche per i problemi della propria esistenza. In molti casi significa riconciliarsi con il mondo adulto abbandonando atteggiamenti oppositivi o di sfida, in altri casi può servire a chiarire dubbi su decisioni esistenziali da prendere; altre volte ancora può significare uscire definitivamente dai pregiudizi sulle persone che vivono la fede e o sulla religione in quanto tale.
Conclusione
«Vivo l’appello come il momento chiave nella giornata scolastica, perché ognuno di quei nomi, di quei volti è più importante di qualsiasi altra cosa io abbia da dire, perché l’educazione è questione di come guardi e solo dopo di cosa dici. E nei nostri occhi prima che dai libri che imparano che la loro vita è una premessa e una promessa».[19]
Questa la cura. Una pratica che accade in una relazione, mossa dall’interessamento per l’altro, orientata a promuovere il suo ben-essere, si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro. La cura non è un sentimento o un’idea, ma un atto, perché è qualcosa che si fa nel mondo in relazione con altri. Il nucleo etico della cura è sentire e assumere la propria responsabilità per la vita, essere capaci di rispetto profondo per ogni altra persona nel suo inviolabile valore, essere testimoni di carità, cioè di quella logica del dono che è la misura prima della pratica di cura.
Noi esseri umani siamo esseri mancanti, in continuo stato di bisogno. Siamo inevitabilmente soli, ma lo siamo in mezzo ad una moltitudine: quando un essere umano comincia a esistere, di fatto comincia a coesistere. Essere consapevoli di aver bisogno di abbracci e di carezze, di una parola gentile e di uno sguardo benevolo non è sentimentalismo, ma una cosa umanamente vitale. Sentirsi dentro una relazione di cura è una necessità ineludibile che ci accompagna per tutto il tempo della vita. Tutto parte dal riconoscersi in debito verso gli altri, a partire da quel dono originario che è la nascita. Scoprirsi creature, profondamente amate e volute, da Dio innanzi tutto, porta inevitabilmente ad un interesse per l’altro, a guardarlo, sentirsi in correlazione con lui, a coglierne i bisogni, ad amarlo. Qui sta la qualità donativa della cura, ontologicamente gratuita, perché l’aver cura, si concretizza nel produrre una forma di beneficio, senza cercare dall’altro nulla per sé. Dare senza chiedere nulla, non vuol dire però, perdere qualcosa, perché la cura per essere buona non deve procurare danno a nessuno. La cura è un agire concreto, perché dopo aver riconosciuto il bisogno dell’altro, assuntane la responsabilità, viene richiesto di entrare concretamente in contatto con i destinatari e di intervenire attivamente nelle situazioni che di volta in volta lo richiedono. La cura guarda negli occhi, perché è cura di una persona precisa. Noi viviamo nel tempo e ci nutriamo di istanti di bene. Avere cura è prendersi a cuore la vita: procurare quanto è necessario per nutrirla e conservarla, per far fiorire le potenzialità in cui si realizza l’umanità dell’esserci, e qui si spalancano le porte al mistero dell’altro nel disegno di un Altro. Per questo, curare significa anche stare in attesa, rispetto a qualcosa di eccedente a noi e forse ignoto anche a colui di cui ci prendiamo cura.
Non esiste vita senza cura, né scuola senza prossimità e sollecitudine. Molte volte si rincorrono programmi ed eccellenze trascurando la grandezza che ciascuno porta in dote e che dovrebbe essere stimolato a scoprire e a mettere a frutto. Ma educare significa coltivare gli altri e noi stessi, dando una forma migliore al nostro essere. Nelle scuole, ogni giorno, ci sono nuovi bisogni, nuove esigenze, nuove aspirazioni che chiedono di essere intercettati ed accompagnati. Nello sforzo di rispondere al meglio a tali nuove esigenze, un contributo peculiare può venire dall’apporto valoriale e di senso dell’identità cristiano-cattolica propria dell’insegnamento della religione cattolica. Il ruolo del docente di religione ha valore ed efficacia, se motivato e capace di rendere testimonianza attraverso la prassi personale e professionale del contenuto vitale della sua materia, responsabilità affidata al suo corpo e al suo agire. L’insegnante di religione si porta dietro tutto sé stesso. Don Bosco diceva che l’educazione è cosa di cuore, non si può infatti, vivere una relazione educativa di qualità se non si è disposti a metterci il cuore e a donare qualcosa di sé. L’attenzione verso l’altro è un gesto cognitivo primario. E quando è appassionata, concentrata, niente la può smuovere. Tenere l’altro nel proprio sguardo è il primo e fondamentale gesto di cura.
Ci sono ancora orecchie capaci di ascoltare e cuori pronti a battere, e perciò occorre scommettere sulla possibilità che un nuovo modo di relazionarsi con i giovani, con l’umanità e l’intera creazione, possa esistere. Attraverso uno sguardo benedicente si può trasmettere un’ipotesi positiva sulla realtà, che la possa far riscoprire meravigliosa agli occhi di chi la guarda. Il mondo e la scuola hanno bisogno di testimoni credibili che aiutino a riconoscere la bellezza del Creato in cui siamo posti, il rispetto e la valorizzazione delle diversità e delle differenze, la riscoperta di nuovi significati come quello del condividere, del patire-con, dello stare-con, del prendersi cura.
[1] Avvocato, consulente familiare e insegnante di religione alla Scuola Secondaria (Cesena).
[2] Cf. L. Mortari, La pratica dell’aver cura, P.B.M. Editore, Torino 2006, 15.
[3] M. Mead in una lezione di antropologia culturale alla Columbia University nel 1965, in https://www.itbramantegenga.edu.it/pagine/certe-storie-andrebbero-raccontate-sussurrando.
[4] M. Heidegger (1889-1976) analizza il tema della cura in una delle sue opere principali Essere e Tempo, (Sein und Zeit, prima edizione 1927, Halle, Germania). Egli ha influenzato notevolmente la filosofia contemporanea, in particolare l’esistenzialismo e l’ermeneutica.
[5] P. Ricoeur, L’educazione come metafora della vita. La filosofia e l’educazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, 83-84.
[6] N. Noddings, Caring. A femminine Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley (CA) 1984.
[7] S. Brotto, Etica della cura. Una introduzione, Orthotes, Napoli 2013, 32.
[8] Cf. Mortari, La pratica dell’aver cura, cit., 45.
[9] Cf. G. Corallo, Pedagogia, I,Armando, Roma 2010, 21.
[10] Cf. P. Ricoeur, La logica di Gesù, Testi scelti a cura di Enzo Bianchi, Qiqajon, Magnano 2009, 38.
[11] Cf. M. Camisasca, Perché mi cercate?San Paolo, Milano 2018, 19.
[12] Cf. Indicazioni e Linee Guida IRC Secondo Ciclo – D.P.R. 20 agosto 2012.
[13] Cf. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana 1999, 42.
[14] Francesco, Lettera Enciclica sulla cura della casa comune Laudato si’, (24 maggio 2015), in https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html>
[15] Cf. G. De Candia, La vera amabilità del Cristianesimo, Charme e stile di una fede post moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.
[16] Francesco, Incontro con gli Studenti del Collegio Barbarigo di Padova nel 100° anno di fondazione <https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/march/documents/papa-francesco_20190323_istituto-barbarigo.html> (consultato il 13 aprile 2023).
[17] Cf. F. Montuschi, Il rapporto docente e studente. Corso di aggiornamento nazionale degli IDR promosso dal servizio nazionale IRC della Cei, Campora San Giovanni 10-12 novembre 2008, in Notiziario IRC 1(2009), 41- 49.
[18] Cf. E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2000.
[19] Cf. A. D’Avenia, L’appello, Mondadori, Milano 2020, 15.