Cecilia Boni[1]
Abstract
È noto il modo in cui Nietzsche ha inteso il nichilismo sia come processo di disgregazione della metafisica occidentale, sia come negazione dei valori vitalistici da parte della tradizione cristiano-platonica. Se il progressivo svuotamento da parte della filosofia occidentale delle proprie certezze descritto da Nietzsche è indubbio, meno certe sono le ragioni per le quali il filosofo tedesco abbia visto nel pensiero cristiano una posizione necessariamente contraria alla vita. Si può infatti ravvisare nell’esistenzialismo cristiano contemporaneo, in particolare nel pensiero di Dostoevskij in quanto precursore del filone russo di tale prospettiva, un tentativo di recuperare la centralità del singolo e delle sue concrete esperienze di vita nel fenomeno religioso. Si tenterà dunque di mostrare come la profonda aderenza alla vita caratterizzi le riflessioni dostoevskiane facendo riferimento alle opere Memorie del sottosuolo, L’idiota, I demoni e Diario di uno scrittore.
Introduzione
È noto l’interesse nutrito da Nietzsche, a partire dal 1880, verso la tematica del nichilismo, dovuto allo studio delle opere di Schopenhauer, von Hartmann, Tolstoj, Turgenev e soprattutto Dostoevskij. La definizione data dal pensatore del nichilismo inteso come logica della decadenza, cioè come processo interno di disgregazione della stessa metafisica occidentale, è la seguente: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano».[2]
A tale accezione di “nichilismo”, bisogna aggiungere un ulteriore modo di intendere il termine, la cui storia viene tracciata da Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli[3] e che coinvolge il pensiero occidentale dalla metafisica di Socrate e Platone in poi, in particolare il pensiero cristiano. Alla tradizione cristiano-platonica, infatti, viene rivolta l’accusa di aver svuotato la vita del proprio significato in nome della fedeltà a un “mondo vero” soprasensibile, non esperibile:
«Il concetto cristiano di Dio – Dio come divinità dei malati, Dio come regno, Dio come spirito – è uno dei concetti più corrotti di Dio mai raggiunti al mondo; addirittura esso rappresenta forse, nel processo di degradazione del tipo divino, l’indice del livello più basso. Dio degenerato a contraddizione della vita, invece che esserne la trasfigurazione e l’eterno sì!».[4]
Nel cristianesimo viene dunque individuata una prospettiva contraria alla vita intesa come divenire, come flusso ininterrotto di enti di cui, data la loro intrinseca finitezza, non è possibile cogliere il significato ultimo. Nella prospettiva nietzscheana tale insensatezza va invece vissuta virilmente fino in fondo, in quanto rappresenta la possibilità per l’individuo di realizzarsi mediante la libera, arbitraria attribuzione di significati che hanno valore esclusivamente per il singolo e che accrescono la sua vitalità.
Se il progressivo svuotamento da parte della filosofia occidentale delle proprie certezze descritto da Nietzsche è indubbio, meno certe sono le ragioni per le quali il filosofo tedesco abbia visto nel pensiero cristiano una posizione necessariamente contraria alla vita. È mia opinione, infatti, che si possa ravvisare nell’esistenzialismo cristiano contemporaneo, in particolare nel pensiero di Dostoevskij in quanto precursore del filone russo di tale prospettiva, un tentativo di recuperare la centralità del singolo e delle sue concrete esperienze di vita nel fenomeno religioso. Si tenterà dunque di mostrare come la profonda aderenza alla vita, in quanto esperienza della finitezza e della caoticità, ma anche della libertà dell’individuo, caratterizzi le riflessioni dostoevskiane, prendendo le mosse dalla stessa interpretazione che Nietzsche propone dello scrittore russo.
1. L’amore per i “lati terribili e problematici dell’esistenza”
La scoperta di Dostoevskij da parte di Nietzsche risale almeno al 1887 e si concretizza nella lettura certa di quattro opere fondamentali del romanziere russo: Memorie del sottosuolo, Memorie di una casa morta, Umiliati e offesi e I demoni. Tale lettura lo impressiona fortemente, tanto da indurlo a descriverla in numerose lettere e a riportare le sue riflessioni in appunti parzialmente confluiti nelle sue ultime opere e in gran parte pubblicati postumi. Ciò che Nietzsche apparentemente ammira di Dostoevskij è la capacità di ritrarre in modo approfondito dal punto di vista psicologico i pensieri e i moti contraddittori celati nell’animo umano. In particolare, egli definisce Memorie del sottosuolo «un vero colpo di genio di psicologia»[5] e vede in Memorie di una casa morta, opera tratta dall’esperienza di Dostoevskij nel carcere siberiano, la descrizione di uno dei “tipi psicologici” a cui il filosofo maggiormente si interessa in vista della trasvalutazione dei valori mediante il metodo genealogico e dell’elaborazione della metafisica della volontà di potenza. Tale prospettiva lo porta, infatti, a intravedere in ogni individuo l’azione di una forza vitale auto-espansiva che lo conduce fuori da sé, un moto che si concretizza nel mondo naturale nell’occupazione dell’ambiente circostante, mentre negli esseri umani nella capacità di attribuire arbitrariamente significati al reale. Il “tipo psicologico” che a suo avviso viene valorizzato da Dostoevskij è quello del criminale, visto come possibile espressione della volontà di potenza:
«Dostoevskij, l’unico psicologo, tra l’altro, dal quale ho imparato qualcosa: lo annovero tra i più bei casi fortunati della mia vita, ancor più della scoperta di Stendhal. Quest’uomo profondo (…) ha percepito in modo assai diverso da quanto egli stesso si aspettava i deportati siberiani, in mezzo ai quali visse a lungo, tutti criminali incalliti per i quali non esisteva più alcuna via di ritorno nella società».[6]
In contrapposizione con la prospettiva a suo avviso nichilistica della morale tradizionale, Nietzsche sembra ravvisare in Dostoevskij una profondità derivante dal suo coraggio nel far emergere il carattere caotico dell’esistenza, individuabile nelle psicologie più oscure, che portano in loro quelle caratteristiche che la società e la ragione scientifica tendono a reprimere. Generalizzando tali considerazioni, lo studioso Antonio Iuliano individua nel brano che riporto di seguito, dal titolo La mia nuova via verso il “sì”, un ulteriore riferimento possibile all’opera dostoevskiana da parte di Nietzsche:
«La mia nuova concezione del pessimismo consiste nella volontaria esplorazione dei lati terribili e problematici dell’esistenza; con questo mi divennero chiare le figure affini del passato. “Quanta “verità” sopporta e osa uno spirito?” Problema della sua forza. (…) Valutare i soli lati dell’esistenza finora affermati; isolare ciò che in tali casi propriamente dice di sì (l’istinto dei sofferenti anzitutto, l’istinto del gregge d’altra parte e quel terzo istinto: l’istinto dei più contro l’eccezione)».[7]
In queste righe si può scorgere una descrizione della posizione di Nietzsche intesa come “nichilismo attivo”, ovvero come affermazione dionisiaca della vita nel suo carattere diveniente e finito. Anche nel caso in cui i riferimenti diretti a Dostoevskij non fossero nelle intenzioni dell’autore, rimane indubbio che quei lati dell’esistenza considerati rilevanti da Nietzsche al fine dell’affermazione dell’esistenza in quanto tale (in primis la questione della sofferenza) trovino piena espressione nelle opere del romanziere russo, il quale risulterebbe dunque lontano da qualsiasi prospettiva “nichilistica” di svuotamento o mascheramento del carattere diveniente dell’esistenza. Analizzerò di seguito come tale rappresentazione totale e, per certi versi, cruda della problematicità della vita sia presente nel romanzo di Dostoevskij, pubblicato nel 1864, Memorie del sottosuolo, un’impietosa descrizione sotto forma di confessione delle contraddizioni insite nella coscienza umana, intesa come sede dei pensieri, delle aspirazioni e, ove ricercato, del contatto con l’Assoluto. Nel corso della narrazione il protagonista esplica il carattere caotico dell’interiorità umana, presentato dallo stesso Dostoevskij in un appunto nella definizione del “sottosuolo”:
«Io solo ho svelato tutta la tragicità del sottosuolo, che consiste in sofferenze, autopunizioni, nella coscienza del bene e nell’impossibilità di raggiungerlo, e soprattutto nella netta convinzione di questi infelici, che tutti siano così e che quindi, forse, non vale la pena di correggersi».[8]
L’uomo viene qui descritto come un essere scisso, caratterizzato dalla tensione tra l’appartenenza al Principio, che gli conferisce coscienza morale, e l’impossibilità di fare di tale tensione un ordine mondano concretamente realizzabile. La condizione dell’essere umano in quanto tale pare dunque quella della sofferenza, derivante dall’esperienza quotidiana della finitezza e dalla tensione verso l’Assoluto. Altro elemento di rilievo che emerge nel romanzo è l’impossibilità di trasporre la ricerca della perfezione interiore in un ordine socio-politico adeguato, che soddisfi pienamente tutti i bisogni concreti e le esigenze degli individui di uguaglianza e riconoscimento sociale. In aperta contraddizione con i movimenti nichilistici russi dell’epoca, che miravano alla realizzazione dello stato socialista, Dostoevskij teorizza dunque l’impossibilità di ordinare definitivamente in senso politico l’esistenza attraverso la metafora dei “logaritmi”:
«Non mi meraviglierei per nulla se a un tratto, di punto in bianco, in mezzo all’universale saggezza futura emergesse un qualche gentleman dall’aspetto ignobile o, per meglio dire, retrogrado e beffardo, si mettesse le mani sui fianchi e dicesse a noi tutti: ebbene signori? Non dobbiamo buttar giù tutta questa saggezza d’un colpo, con una pedata, mandandola in polvere, col solo scopo che tutti questi logaritmi se ne vadano al diavolo e che noi si possa di nuovo vivere secondo la nostra sciocca volontà? (…) All’uomo non occorre altro che una volontà indipendente, qualunque cosa costi questa indipendenza e a qualunque cosa conduca».[9]
Con questa metafora Dostoevskij pare irridere la possibilità per la razionalità logico-scientifica, basata su verità universali e necessarie, di soddisfare tutti i desideri dell’essere umano e placare la sua insoddisfazione, derivante dalla sua originaria appartenenza al soprasensibile. L’esistenza appare dunque come una dimensione irriducibilmente priva di ordine e di significato, segnata dalla sofferenza derivante dal limite e dalla contraddizione.
Nonostante abbia messo in luce i “lati problematici e terribili dell’esistenza”, Dostoevskij pare però rappresentare un mondo sterile e caotico, lasciato vuoto da Dio in cambio della sola promessa dell’esistenza di una vita dopo la morte. Se così fosse, il suo pensiero rientrerebbe pienamente nell’accezione di cristianesimo che Nietzsche accusava di nichilismo.
2. La dottrina dell’eterno ritorno e l’“aura”
Il particolare interesse nutrito da Nietzsche per il romanzo I demoni, pubblicato da Dostoevskij nel 1873, è dimostrato dal titolo riportato su una sezione dei frammenti nietzscheani del 1888, “Bési”, ovvero la traslitterazione del titolo originale del romanzo dostoevskiano. C. A. Miller ha svolto un’attenta analisi filologica di questa sezione nell’articolo The Nihilist as Tempter-Redeemer: Dostoevsky’s “Man-God” in Nietzsche’s Notebooks. L’autore mostra come, nonostante numerosi interpreti[10] abbiano successivamente visto nel personaggio di Kirillov de I demoni una critica “ante litteram” alle dottrine nietzscheane dell’oltreuomo e dell’eterno ritorno, Nietzsche lasci da parte il tema della tentata redenzione dell’umanità in senso “superomistico” operata da Kirillov e colga solo una presunta somiglianza tra la posizione del personaggio e quelle di Gesù e dello stesso Dostoevskij. Ciò che accomuna ai suoi occhi Kirillov, Dostoevskij e Gesù è la seguente esperienza: «a “condition of the heart” defined by a radical interiority, a mood of supreme “felicity” (Seligkeit) realized as the apotheosized “inner world”»[11]. In seguito alla rivalutazione della figura di Cristo operata grazie alla lettura di Tolstoj, Nietzsche vedrebbe sia in Gesù, sia nell’epilettico Dostoevskij e nei suoi personaggi una fuga dal carattere diveniente del mondo in uno stato psicologico di pace e tranquillità interiore, paragonabile all’esperienza del Nirvana buddhista. Nietzsche accomuna dunque l’insegnamento di Gesù e il pensiero di Dostoevskij a quel ritrarsi della psiche dal mondo, proprio anche della religiosità orientale e della filosofia di Schopenhauer, che costituisce la forma passiva del nichilismo, quella forma che non sa farsi carico dell’insensatezza del reale in quanto non ha la forza di attribuire significati innovativi al divenire. Risulta dunque rilevante analizzare la figura di Kirillov, in modo tale da verificare la teoria nietzscheana che vi sia nel pensiero di Dostoevskij un nichilistico rifiuto del mondo.
Kirillov, come gli altri due principali personaggi de I demoni, Šatov e Verchovenskij, ricava le sue idee dal contatto con Stavrogin, emblema di ciò che per Dostoevskij rappresenta il nichilismo filosofico, ovvero l’indifferentismo morale. Il proposito di Kirillov è suicidarsi, attraverso un sacrificio che stravolge quello di Cristo, per mostrare agli uomini l’inesistenza di Dio e, di conseguenza, la totale libertà e sovranità degli esseri umani sul mondo. Egli mostra un grande ottimismo antropologico: il personaggio sostiene la piena capacità dell’essere umano, una volta smascherate le menzogne sull’esistenza di una vita ultraterrena, di realizzarsi pienamente dal punto di vista morale. L’interpretazione di Nietzsche concernente il rifugiarsi di Kirillov in una felicità esclusivamente interiore si basa sulla modalità in cui il personaggio presenta la propria “scoperta”:
«”Quando l’avete saputo di essere così felice?”
“La settimana scorsa, martedì, no, mercoledì, perché era già mercoledì, di notte.”
“In che occasione?”
“Non mi ricordo; così…Camminavo per la stanza…fa lo stesso. Fermai l’orologio, erano le due e trentasette”».[12]
Il gesto di fermare l’orologio non è casuale: Kirillov manifesta la convinzione di poter eternizzare l’esistenza terrena, di renderla cioè in sé completa e perfetta attraverso il solo atto di volizione, generato dalla consapevolezza della totale indipendenza umana. Tale gesto, più che manifestare un rifugio nell’interiorità, richiama fortemente la dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno intesa come la decisione, perpetuata attraverso l’esercizio della volontà di potenza, di attribuire al divenire il carattere dell’essere[13] proiettando significati arbitrari sul reale e realizzando così la forma attiva di nichilismo. Inoltre, Kirillov potrebbe difficilmente essere il portavoce di Dostoevskij sia perché le sue idee sono discordanti dalle opinioni espresse dal romanziere nel Diario di uno scrittore e negli Epistolari, sia a causa delle condizioni fallimentari in cui il personaggio realizza il suo suicidio, collaborando all’uccisione dell’inerme Šatov e senza sortire alcun effetto sul destino del genere umano. Risulta dunque più conveniente, al fine di analizzare i presunti stati di felicità interiore teorizzati da Dostoevskij, spostare l’attenzione su un altro personaggio che esperisce simili stati di beatitudine e che è epilettico come Kirillov, ma che pare più vicino alla prospettiva religiosa dello scritto russo: il principe Myškin, protagonista de L’idiota.
Myškin è un giovane immensamente buono e disponibile, ma reso “идиот” (nel senso arcaico del termine, che denota una separazione dal resto del mondo) da una grave forma di epilessia, la cui cura aveva reso necessario un lungo soggiorno in Svizzera. Il romanzo ha inizio col ritorno del principe in Russia; a causa di questa provenienza da un ambiente lontano, della sua indole e dei continui rimandi al dipinto di Holbein Corpo di Cristo morto nella tomba alcuni interpreti hanno visto in questo personaggio un’immagine di Cristo. Sono di particolare rilievo le descrizioni che Myškin dà dell’“aura”, ovvero quella forte impressione psicologica che lo colpisce subito prima di un attacco epilettico:
«Gli venne in mente un fenomeno che immancabilmente si manifestava alla vigilia di un attacco epilettico. In questo frangente, nonostante la tristezza, l’oppressione e il buio dell’anima, il cervello gli si infiammava e le energie vitali esplodevano con estrema violenza. (…) In quel secondo, egli era sicuro che avrebbe potuto dare la vita pur di assaporare ancora quella celestiale voluttà che lo riempiva. In quel secondo si poteva capire il vero significato della frase “Verrà tempo, in cui non esisterà più il tempo”».[14]
Se Kirillov doveva i suoi stati di felicità alla decisione di fare dell’esistenza il terreno di piena realizzazione dell’essere umano e la sua epilessia veniva citata di sfuggita, in Myškin l’esperienza dell’aura è strettamente legata allo stato patologico, in continuità col legame tracciato da Dostoevskij in Memorie del sottosuolo tra l’esperienza del limite e quella dell’appartenenza alla dimensione soprasensibile. In un mondo apparentemente vuoto e caotico, nel quale gli individui hanno piena libertà d’azione e la mano di Dio sembra assente, appare dunque la possibilità di sperimentare la gioia del contatto col divino.
Vi è un altro personaggio de L’idiota che richiama l’esperienza della piena felicità, di genere però terreno: la bella e sensibile Nastasja (da αναστασις, “resurrezione”), che pare racchiudere in sé tutte le meraviglie del creato. Ivanov è l’interprete che ha maggiormente sottolineato gli influssi della mitologia russa nei personaggi de L’idiota.[15] Se in Myškin egli vede l’immagine del “folle in Cristo”, nella “bellezza metafisica” di Nastasja coglie le caratteristiche della “Madre Terra”, che la rendono dunque una possibile allegoria del creato. Tra la donna e il principe, infatti, pare esistere un legame antico e misterioso:
«”La vostra improvvisa apparizione mi ha sbalordito”, balbettò il principe.
“E come avete fatto a riconoscermi? Quando ci saremmo incontrati? A dire la verità, la vostra faccia non mi è nuova…”».[16]
La relazione tra i due si intensifica, in quanto Myškin prova per Nastasja un amore intenso e pietoso dovuto alle disgrazie della donna, la quale è stata violata in giovane età da un uomo più anziano che ha fatto di lei una concubina. Nonostante la sua dedizione, il principe dimostra la sua inettitudine ad agire nel mondo: non riesce a impedire l’uccisione di Nastasja da parte del passionale Rogožin. Oltre alle ripetute violazioni della donna, ciò che emerge dalla sua figura è la perfetta bellezza, che pare brillare con tanta più forza quanto più grandi sono le umiliazioni che subisce. Illuminante, in questo senso, è un dialogo che avviene tra Myškin e un’amica in seguito alla contemplazione del ritratto di Nastasja: «”Non è facile giudicare la bellezza. Io non sono pratico. La bellezza è un mistero.” […] “Una bellezza come questa è una forza che può cambiare il mondo”, rispose Adelaida».[17]
Il significato apparentemente misterioso di questa affermazione è stato chiarito da Tat’jana Kasatkina, la quale ha mostrato la maggiore vicinanza di Dostoevskij rispetto ai suoi connazionali alla spiritualità occidentale.[18] A suo avviso, infatti, l’attenzione per la bellezza, intesa secondo la caratterizzazione metafisica che emerge ne L’idiota, mostra la fede dello scrittore russo nella rivelazione di Dio attraverso gli enti. Nella religiosità orientale, invece, l’incontro col divino viene maggiormente legato all’ascesi, che caratterizza infatti la figura del pellegrino. Oltre al personaggio di Nastasja, ciò che spinge Kasatkina a fare queste affermazioni è il breve scritto Il secolo d’oro in tasca, pubblicato da Dostoevskij nel Diario di uno scrittore del gennaio 1876. L’autore descrive in esso una sala in cui è in corso un ballo, durante il quale sperimenta una sorta di epifania che spiega rivolgendosi ai partecipanti alla festa:
«La vostra disgrazia è che voi stessi ignorate quanto siate belli! Non sapete che ognuno di voi, se lo volesse, potrebbe subito render felici tutti in questa sala e trascinare tutti con sé? E questo potere esiste in ognuno di voi, ma così profondamente nascosto, che già da molto tempo ha cominciato a sembrare inverosimile. È mai possibile che il secolo d’oro esista soltanto sulle tazze di porcellana?».[19]
L’idea di Dostoevskij è che queste persone, più in generale tutte le persone, potrebbero rendersi completamente felici a vicenda se sapessero «quanta lealtà, onestà, quanta sincera e cordiale allegria, quanta purezza, quanti sentimenti generosi, quante buone intenzioni e intelligenza»[20] vi sono in loro. Riemerge qui la tematica dell’appartenenza dell’anima umana al divino, una divinità però ottenebrata dal “sottosuolo”, ovvero dal limite e dalla chiusura verso Dio. La venuta del “secolo d’oro”, della felicità in questa vita, pare dunque possibile grazie alla relazione con quel Dio che secondo lo scrittore può salvare dal sottosuolo, quel Dio che lascia agli uomini la libertà di scegliere se amarlo e la cui credibilità, come testimonia il dipinto di Holbein, risiede nell’aver condiviso la sofferenza dell’essere umano.
Lungi dal dare adito all’interpretazione nietzscheana e dal teorizzare la necessità per l’individuo di ritrarsi nella propria interiorità, i testi di Dostoevskij ci propongono dunque una visione appassionante della vita, che nella sua dimensione diveniente, nell’impossibilità di essere totalmente controllata dal punto di vista pratico, è però terreno di libere relazioni con gli altri individui e con Dio. Inoltre, se la dottrina dell’eterno ritorno richiede la libera attribuzione di significati al reale nella disperata, ma virile consapevolezza che il carattere diveniente dell’esistenza le impedisce di possedere un significato oggettivo, la prospettiva di Dostoevskij è radicalmente differente. Essa individua nell’apertura alla caoticità della vita la ricerca del suo significato unico e autentico attraverso le relazioni con gli altri e l’esperienza della propria essenziale limitatezza, che permette all’essere umano di cogliere la sua appartenenza a una dimensione soprasensibile. Ciò presuppone però la valorizzazione di un tipo di razionalità che non si basa su enunciati universalmente riconosciuti, ma su fatti probabili e che si fonda sull’esercizio di scelte libere che creano disposizioni ad aderire a un ideale piuttosto che a un altro; infatti, un Dio che lascia spazi di libertà alla creatura per poter essere volontariamente cercato e amato non può essere dimostrato attraverso un sillogismo. Che questa sia la prospettiva dostoevskiana pare confermato dalle parole di affetto rivolte da Aglaja al principe Myškin: «in voi, l’intelligenza propriamente detta è più evoluta che in tutti quelli che vi criticano, fino a toccare punti che questa gente non sogna nemmeno. D’altronde esistono due tipi d’intelligenza: quella principale e quella secondaria».[21]
L’amore appassionante che Dostoevskij sente per la vita intesa come terreno della libera ricerca di Dio spiega il grande monito, tratto dalla Scrittura, che ricorre ne I demoni e che si oppone all’essenziale indifferenza di Stavrogin verso l’esistenza: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca».[22]
[1] Docente di Filosofia morale all’ISSRE (Modena), di Filosofia e Storia al Liceo Scientifico “A. Tassoni” (Modena).
[3] Cfr. Id., Crepuscolo degli idoli, trad. it. di M. Ulivieri, Newton, Roma 2006, 116.
[4] Id., L’Anticristo, trad. it. di P. Santoro, Newton, Roma 2006, 39.
[5] Lettera a Overbeck del 7 marzo 1887, riportata in A. IULIANO, Filosofia come esistenza: Dostoevskij – Nietzsche, cit. 13.
[6] Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit. 158-159.
[7] Id. Frammenti postumi, in Opere, volume VIII, tomo II, cit. 106-107.
[8] Cfr. S. Graciotti – V. Strada (a cura di), Dostoevskij e la crisi dell’uomo, Vallecchi, Firenze 1991, 278.
[9] F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, trad. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 2002, 26.
[10] Tra questi si ricordano Berdjaev, Camus, Evdokimov, Gide, Girard, Guardini, Merežkovskij.
[12] Ivi 175.
[13] Si fa riferimento all’interpretazione della complessa questione dell’eterno ritorno presente nell’opera M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.
[15] Cfr V. Ivanov, Dostoevskij. Tragedia-Mito-Mistica, trad. it. di E. Lo Gatto, Il Mulino, Bologna 1994.
[16] F. Dostoevskij, L’idiota, cit. 652.
[17] Ivi 636.
[19] F. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, a cura di E. Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 222.
[20] Ivi 221.
[21] F. Dostoevskij, L’idiota, cit. 854.
[22] Apocalisse 3, 15-16.