Brunetto Salvarani[1]
Abstract
La diversità culturale e religiosa, in realtà, non è un prodotto della modernità. Appartiene alla storia di tutte le comunità umane.
La religione si offre in generale quale risposta di senso alle domande fondamentali dell’uomo e della donna di ogni epoca storica. Questo mette necessariamente le religioni non solo in dialogo tra loro, ma anche con le diverse forme di interpretazione atea o non religiosa della persona umana e della storia, che si trovano ad affrontare le stesse domande di senso.
L’articolo motiva all’elaborazione di una teologia pubblica ecumenica come possibile aiuto per trovare risposte più efficaci e credibili per le sfide della contemporaneità.
Le nostre città stanno cambiando, e stanno cambiando in fretta: fra l’altro, diventano di giorno in giorno sempre più multiculturali e multireligiose, aggettivi che ci siamo abituati a utilizzare con grande facilità, ma in genere senza riflettere adeguatamente su che cosa significhino per il nostro vissuto quotidiano. Perché adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra culture, di orientamento religioso o no, nella vita sociale urbana non comporta solo limitarsi a organizzare strategie di integrazione più o meno calibrate o adottare misure compensatorie di carattere speciale, ma piuttosto assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della comunità civile.
Uno scenario (e un imperativo) che, già delicato di suo, appare in questi ultimi anni tanto più pressante, incalzato dalle cronache nazionali e internazionali: tempo affollato di crescenti paure, solitudini e insicurezze, di ricerca affannosa di facili capri espiatori, ma anche di conferme del fatto che, piaccia o no, sull’educazione al dialogo (anche a quello interreligioso!) e all’interculturalità si giocherà una buona fetta di futuro di questo paese, e dell’intera Europa. In vista, auspicabilmente, di un’autentica convivialità delle differenze (don Tonino Bello) e di quello che papa Francesco, nell’esortazione Evangelii gaudium, definisce il «dialogo sociale per la pace».[2]
Questo il panorama con il quale quanti si trovano oggi a essere docenti di IRC, o si accingono a diventarlo, sono chiamati a fare i conti. Più ancora che una questione di contenuti, si tratta di un indispensabile cambiamento di mentalità, nel contesto di quello che lo stesso Bergoglio ci ha abituato a definire un vero e proprio «cambiamento d’epoca».[3]
1. Il nuovo pluralismo religioso
La diversità culturale e religiosa, in realtà, non è un prodotto della modernità. Appartiene alla storia di tutte le comunità umane, se le analizziamo oltre la superficie. Per quel che riguarda, ad esempio, la società italiana, di “diversità religiosa” si scrive in modo documentato già nel censimento sul tema realizzato nel lontano 1931 e pubblicato qualche anno dopo. Nel 1935, infatti, la «quasi totalità (99,6%) della popolazione presente (41.771.000) è costituita da cattolici».[4] E lo 0,4% restante? Sono gli a-cattolici, cioè, secondo il linguaggio dell’epoca, gli “evangelici” e gli “israeliti”, mentre coloro che non appartengono a nessuna religione sarebbero 17.883. Siamo di fronte al “vecchio” pluralismo, quando le minoranze erano quasi invisibili e ancor meno riconosciute.
Dopo questa stagione novecentesca, si apre peraltro una nuova fase anche in termini di affiliazione religiosa, che le statistiche recenti documentano e attestano in modo sempre più convinto.[5] La diversità religiosa e culturale si articola: ora, oltre ai protestanti e agli ebrei, sul territorio italiano abitano e prendono parte al proprio culto: musulmani (circa due milioni), ortodossi (circa 1,7 milioni), Testimoni di Geova (oltre 400.000), hinduisti (200 mila), buddhisti (300 mila), sikh (75 mila), mormoni (25 mila), baha’i (4000) e ancora altre comunità religiose a cui partecipano, secondo il censimento ricordato, circa 92 mila persone per un totale di oltre cinque milioni e mezzo di diversamente credenti, dove diversamente è da intendere rispetto alla religione cristiana cattolica.
È il nuovo pluralismo, quello, per dirlo con uno slogan efficace più volte rilanciato, che registra un passaggio importante: dalla religione degli italiani (era la stragrande maggioranza negli anni Trenta) all’Italia delle religioni, come appare sempre più evidente frequentando anche distrattamente le nostre città. La diversità c’è sempre stata, ma oggi diventa manifesta e impegna non solo a capire l’altro, ma anche a capirsi, ad auto-comprendersi in modo nuovo. E qui la teologia è chiamata in causa.
C’è poi un pluralismo a venire, secondo le proiezioni statistiche. Quello, per riprendere un’espressione suggestiva, in cui si rende evidente che «Dio ha cambiato indirizzo».[6] Si intende, qui, il Dio cristiano, se è vero che le proiezioni indicano che nel 2050 solo un quinto dei tre miliardi di cristiani nel mondo sarà costituito da bianchi non-ispanici.[7] Insomma, soprattutto per il cristianesimo, ma l’osservazione vale in realtà anche per altre religioni, il baricentro gravitazionale di esso si è spostato nel sud del mondo: Africa, Asia e America Latina.
Interessante è la descrizione proposta da Philip Jenkins di questo futuribile cristianesimo: sostanzialmente povero dal punto di vista economico, conservatore nella fede, nella dottrina e in morale, largamente orientato al soprannaturale.[8] Carismatici, apocalittici, visionari, attirati da guarigioni non meno che da esorcismi e visioni oniriche, attaccati alla lettera della Scrittura, i cristiani di domani dovrebbero gravitare in qualche modo attorno all’area pentecostale.[9]
Fautori, inoltre, di «un cristianesimo post-coloniale, fiero delle proprie caratteristiche indigene, che pensa con categorie culturali proprie (non più modellate su quelle della tradizione filosofica europea) e si organizza in modo molto più flessibile rispetto alle complesse formazioni ecclesiastiche che hanno dominato la storia del cristianesimo occidentale»[10]. Sono già, in ogni caso, dei nuovi cristiani, «nuovi cristiani del Terzo Millennio», che non sono nati né stanno crescendo nel classico (per l’Europa e il Nordamerica, almeno) regime di cristianità.[11]
In tale orizzonte, e qui il sta il pluralismo a venire, le forme storiche delle religioni sono messe in discussione. Oggi la letteratura sociologica al riguardo descrive la presenza plurale delle religioni nel tempo post-moderno, destinata a confermarsi sempre di più nel prossimo futuro, come quella del “mercato religioso aperto”, oppure secondo la formula del “credere senza appartenere” o ancora quella della religiosità selettiva e individualizzata, à la carte, fusion, designer, secondo alcune delle espressioni coniate per descrivere il fenomeno da vari studiosi.[12]
Sicuramente il pluralismo religioso che verrà sarà contrassegnato dalla temporalità più che dalla appartenenza e dalla tradizione, sarà più ricerca spirituale e meno religione istituzionalizzata, è già e sarà ancora di più rappresentato dalla modalità religiosa del “pellegrino” e del “convertito”, secondo la felice definizione di Danièle Hervieu-Léger[13]. Per quanto mi riguarda, sono convinto, e non da oggi, che tali prospettive richiedano alla cultura occidentale di scorgere nel deperimento progressivo delle forme storiche delle religioni un’opportunità spirituale: non sarebbe tanto la ricerca di senso religioso a essere in serie ambasce, quanto piuttosto i suoi contenitori tradizionali, le forme e i modelli storici che fin qui l’hanno accolta e plasmata.
Tra presente e futuro, in ogni caso, il pluralismo religioso delle nostre città è un dato di fatto. Se la diversità religiosa, oltre che culturale, è da tempo presente nelle nostre comunità, oggi lo è in modo nuovo. Tale novità interroga direttamente la teologia, dopo essere stata indagata dalle scienze sociali.
2. La città post-secolare
Da tempo, ormai, si discute se ciò che ha caratterizzato la stagione della secolarizzazione sia ancora valido. Secondo un’indagine di tipo sociologico, la secolarizzazione si caratterizza per una situazione sociale dove si manifesta un declino dell’importanza della religione negli spazi pubblici, un declino del riconoscimento pubblico delle istituzioni religiose e, infine, un declino delle pratiche e dell’espressione religiosa (il teologo Christoph Theobald parla apertamente di un’avvenuta es-culturazione del cristianesimo dall’Europa).[14] E se è indubbio che le chiese storiche, nel contesto occidentale, siano sempre più deserte e le vocazioni presbiterali in drastico calo, non è più tanto vero che, in epoca del “ritorno del sacro”, la religione abbia perso di importanza e che le sue istituzioni siano poco riconosciute.
La città plurale è anche la città post-secolare, in cui i simboli religiosi si fanno presenti, e chiedono di essere riconosciuti nello spazio pubblico. E qui per la città post-secolare si presenta il bivio: davanti alla richiesta di riconoscimento pubblico da parte della religione è possibile la risposta fondamentalista oppure quella del dialogo. La teologia pubblica ecumenica si propone allora come strumento per la risposta dialogica[15].
Vale la pena di descrivere almeno per sommi capi la città post-secolare. Essa vede il ritorno delle religioni come poli attrattivi tanto per individui quanto per comunità; registra, come discutono, tra altri, Habermas, Taylor, Berger, un ritorno delle religioni nello spazio pubblico in forme diverse e magari contraddittorie, come abbiamo provato a dire a proposito del fondamentalismo.[16]
Assistiamo, insomma, a un autentico e rapido cambio di paradigma: da quello secolare a quello post-secolare. I vettori di tale cambiamento sono, tra altri, la globalizzazione, le spinte migratorie e il nuovo pluralismo da una parte, il fondamentalismo e la ricerca religiosa post-moderna dall’altra. Tali fenomeni hanno messo in crisi l’idea classica e un po’ scolastica della secolarizzazione.
In Italia, la città post-secolare è quella che vede una ripresa non tanto delle pratiche religiose tradizionali (le chiese, quella cattolica, ma anche quelle protestanti, registrano piuttosto una significativa crisi di appartenenza), ma di dinamiche di ricerca religiosa e spirituale per gran parte inedite e imprevedibili. È possibile trovare nella città post-secolare una cresciuta disponibilità verso pratiche spirituali non necessariamente religiose in senso stretto; al tempo stesso, l’incidenza del welfare religioso tende ad aumentare, così come l’offerta religiosa appare sempre più diversificata. Non da ultimo, la città post-secolare è quella che accoglie – bon gré mal gré – anche la nuova religiosità degli immigrati, dovendo fare i conti con il “Dio dei migranti”.[17]
Infine, nella stessa città così stimolata convive ancora lo spirito della vecchia secolarizzazione che continua a regimentare il rapporto tra Stato e Chiesa/e. La realtà della città post-secolare lancia una sfida, piuttosto, alle chiese. Esse possono interpretare la nuova stagione con entusiasmo e parlare della rivincita di Dio[18] oppure manifestare nostalgia per l’età secolare, quando tutto era chiaro e distinto, solido e non liquido, per rifarsi a una metafora post-moderna. E se le chiese protestanti sembrano proporre uno sforzo di adattamento alla liquidità post-moderna, quelle ortodosse abitano la città post-secolare insistendo sul recupero identitario, mentre quelle cattoliche si industriano a lavorare, con una certa fatica, sull’idea di una nuova evangelizzazione da realizzare nella città post-moderna.
3. Per una teologia pubblica ecumenica
Una teologia pubblica ecumenica potrebbe aiutare a trovare risposte più efficaci e credibili. Essa, però, deve essere consapevole che la città post-secolare e la sfida che lancia a ripensare la fede e il ruolo della religione diventa forza solo se affrontata insieme da parte delle diverse chiese e comunità religiose. Anche per questo, la teologia che discute del ruolo pubblico delle religioni nella società contemporanea non può che essere ecumenica. Al tempo stesso, la teologia pubblica ecumenica ha chiaro che il punto debole della città post-secolare risiede nell’analfabetismo religioso dominante: occorre conoscere la propria storia e quella degli altri per poter vincere la sfida.[19]
È sull’analfabetismo, ad esempio, che prosperano i fondamentalismi, su quella che Olivier Royha brillantemente definito la santa ignoranza.[20]
I fondamentalismi, infatti, rappresentano le minacce che la teologia pubblica ecumenica è chiamata a scongiurare. Il richiamo identitario e le “identità reattive”, anche quando non arrivano alla violenza fisica o verbale, non aiutano a ripensare il ruolo delle religioni nella città post-secolare. Infine, la teologia pubblica ecumenica è consapevole che la città plurale e post-secolare rappresenta una grande opportunità: in essa la rilevanza sociale delle religioni può essere detta e praticata, diversamente dalla stagione in cui la religione era bene privato. Il bene comune, informato dall’etica religiosa, guadagna in significato ed è meglio difeso.
In definitiva, la teologia pubblica (ecumenica) può aiutare l’abitante della città multiculturale e multireligiosa non riprendendo il multiculturalismo identitario, che postula la creazione di spazi sociali divisi, e nemmeno l’imposizione di un modello assimilativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) è proposta come termine cui adeguarsi. Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, del resto, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, «straniero a noi stessi».[21]
In altri termini, tutti noi siamo chiamati a farci pellegrini e a metterci in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città. Per poterlo fare è necessario attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta – si badi – di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico.
4. Finale. Nella mutazione
Al riguardo lo scrittore Alessandro Baricco, in I barbari, ha descritto con evocatività la sfida che la società, ma anche le chiese e le religioni tutte, si trovano oggi a dover affrontare:
«Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. (…) Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciate, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse sé stesso in un tempo nuovo».[22]
E nella tradizione ebraica rabbinica si sostiene: «È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: ‘il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato’ (Sal 34,19); ‘egli guarisce i cuori spezzati’ (Sal 147,3); ‘Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto’ (Sal 51,20)».[23]
[1] Teologo, saggista e critico letterario. Docente alla FTER e negli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Bologna e di Modena.
[2] Papa Francesco, Evangeli gaudium, 2013, nn.238-258.
[3] La prima volta, nel suo discorso al quinto Convegno ecclesiale nazionale su In Gesù Cristo il nuovo umanesimo (Firenze, Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015).
[4] Si tratta del settimo censimento degli italiani avvenuto nel 1931 e pubblicato nel 1935 (si veda il sito www.istat.it al link archivio/censimenti).
[5] Rimando alla ricerca del Cesnur denominata “Il pluralismo religioso italiano nel contesto postmoderno”, www.cesnur.com.
[6] O. Vallet, cit. in I. Ramonet, “Géopolitique des religions”, in Manière de Voir. Le Monde diplomatique n.48 (1999), p.6.
[7] Il riferimento, in particolare, è all’ormai classico D. B. Barrett – G.T. Kurian – T.M. Johnson, World Christian Encyclopedia: A comparative survey of churches and religions in the modern world, Oxford University Press, New York 2001. Ottimi dati sono reperibili anche sul sito del Center for the Study of Global Christianity, collegato con il Gordon-Conwell Theological Seminary (www.gordonconwell.edu).
[8] Cfr. P. Jenkins, La terza chiesa, Fazi, Roma 2004 e IDEM, Chiesa globale, la nuova mappa. Cristianesimi di domani: realtà e scenari, EMI, Bologna 2014.
[9] Cfr. E. Pace – A. Butticci, Le religioni pentecostali, Carocci, Roma 2010. Sul (presumibile) roseo futuro del pentecostalismo, rimando all’ormai classico H. Cox, Fire from Heaven, Reading Mass., Addison – Wesley 1985. Uno sguardo antropologico al riguardo non privo d’interesse è offerto da M. Marzano, Cattolicesimo magico. Un’indagine etnografica, Bompiani, Milano 2009. Intorno al fenomeno pentecostale indagato a tutto campo, si veda la ricerca di E. Pace, Cristianesimo extra-large, EDB, Bologna 2018.
[10] E. Pace – A. Butticci, Le religioni pentecostali, cit., 19.
[11] Mi permetto di rimandare al mio Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, Laterza, Roma-Bari 2023.
[12] A proposito del mercato religioso si vedano R. Stark – M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita della religione in Occidente. Piemme, Casale Monferrato 2003 e il classico G. Davie, Religion in Britain since 1945. Believing without Belonging, Basil Blackwell, Oxford 1994. Di designer spirituale parla la prolifica ricerca di Luigi Berzano: si veda, ad es., L. Berzano, Quarta secolarizzazione. Autonomia degli stili, Mimesis, Sesto San Giovanni 2017.
[13] D. Hervieu-léger, Il pellegrino e il convertito: le religioni in movimento, Il Mulino, Bologna 2003.
[14] Cfr. C. Theobald, Urgenze pastorali, EDB, Bologna 2019, 29 e passim.
[15] Cfr. M. Dal corso – B. Salvarani, “Ho parlato chiaramente al mondo”, Cittadella, Assisi 2020.
[16] Di Peter Berger si veda almeno P. Berger, I molti altari della modernità: le religioni al tempo del pluralismo, EMI, Bologna 2017.
[17] Il riferimento è all’opera di M. Ambrosini – P. Naso – C. Paravati, a cura, Il Dio dei migranti, Il Mulino, Bologna 2018. Qui, oltre alla religione come fattore resiliente, si indaga sul potere di integrazione delle varie comunità religiose amministratrici, tra le altre cose, anche di un vero e proprio “welfare religioso”.
[18] Cfr. G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1990.
[19] Cfr. A. Melloni, a cura, L’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2014 e B. Salvarani, a cura, L’analfabetismo biblico e religioso, EDB, Bologna 2022.
[20] O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Feltrinelli, Milano 2009.
[21] J. Kristeva, Stranieri a sé stessi, Feltrinelli, Milano 1990.
[22] A. Baricco, I barbari, Feltrinelli, Milano 2006, 179-180.
[23] A. Mello, a cura, Ritorna, Israele!, Città Nuova, Roma 1985, 104.