Elena Vallara[1]
Abstract
Il cambiamento è parte integrante della storia, il suo motore; Il linguaggio è sempre coinvolto, a volte travolto dal cambiamento. La Chiesa oggi stenta a trovare la via del rinnovamento e il linguaggio ecclesiale riflette un certo immobilismo, specchio di una generale incapacità – o una scarsa volontà – di lasciare andare ciò che oggi risulta irricevibile per l’umano che abita il nostro mondo, di ripensare e ri-dire la fede in modo più comprensibile e attraente, non già per smania di proselitismo ma per continuare a offrire l’annuncio del Vangelo a una umanità che oggi ha tanto bisogno di riscoprirlo. Occorre, ancora e sempre, ripartire da Gesù, dal suo «stile»; riconoscere nel mistero dell’Incarnazione il punto di incontro tra Dio e l’umano di ogni tempo e luogo; assumere che nella voce, nelle richieste più o meno espresse, nei desideri e nei bisogni dell’umano risiede la voce dello Spirito che orienta il cammino dell’umanità e della Chiesa.
1. Il contesto
Oggi si assiste ad un progressivo allontanamento dalla religione. Questo allontanamento ha spesso la forma del rifiuto esplicito della proposta religiosa nel suo complesso, motivato da una forte sfiducia nelle istituzioni di cui vengono sottolineati i limiti, le carenze e gli aspetti problematici e critici. Il fenomeno è stato studiato nei decenni scorsi sotto il nome di «secolarizzazione» ma questa definizione non basta a rendere ragione dei cambiamenti in atto. Oggi si parla più opportunamente di esculturazione[2] del cristianesimo, una dinamica per la quale la società, senza clamore e senza rimpianto, espelle ed elimina progressivamente ogni riferimento alla religione fino a renderla, semplicemente, irrilevante. Il riscontro di questa definizione è concreto e quotidiano: di fatto oggi per molte persone la proposta religiosa, non solo cristiana cattolica, è diventata insignificante per la vita.
In un recente dossier pubblicato dalla rivista Jesus[3] la teologa Stella Morra, il professor Gaetano Piccolo s.j., Flavia Trupia, esperta in comunicazione e la scrittrice e saggista Mariapia Veladiano hanno dialogato lungamente sul tema del linguaggio evidenziando i molti nodi da sciogliere, i numerosi fardelli che ostacolano un rinnovamento complessivo dello stile comunicativo della Chiesa.
A partire da un diffuso senso di rassegnazione e chiusura nei confronti delle giovani generazioni, passando per una «pigrizia del pensare» e del parlare che impoverisce il linguaggio teologico e lo svuota di senso, la comunicazione ecclesiale inciampa nella tentazione di scimmiottare il linguaggio degli influencer, evitando di affrontare temi più decisivi come la preparazione dei presbiteri, la mancanza di luoghi di confronto e un generale rifiuto della complessità che porta al «culto dell’esattezza dottrinale» a discapito del riconoscimento della forza creativa dello Spirito che, sempre, anche in questi tempi difficili, soffia abbondante.
Stando a contatto con gli adolescenti della Scuola secondaria di secondo grado ci si rende conto – non senza un certo stupore – che questi ragazzi e ragazze, in larga maggioranza, non solo hanno abbandonato qualsiasi pratica religiosa, personale o comunitaria, ma hanno perso familiarità con il linguaggio e le forme religiose, non li conoscono e non li capiscono più, non dicono più nulla alle loro vite, sono parole e immagini legate ad una storia che non è la loro.
Questo «scollamento», ovviamente, non nasce dal nulla. È stato generato nella storia, la sua genesi coinvolge molteplici aspetti e soggetti, ha a che vedere con il cammino del pensiero e della vita della società e della Chiesa e la relazione tra quest’ultima e «il mondo» che in tempi rapidissimi si è trasformato, e continua a trasformarsi, emancipandosi quasi del tutto dai «doveri» imposti dalla religione.[4]
Questo «cambiamento d’epoca» – come lo ha più volte definito papa Francesco[5] – può essere rigettato come sommamente negativo, alzando difese e chiudendosi al riparo delle proprie presunte sicurezze, alimentando rappresentazioni, narrazioni e pratiche che hanno finito col rendere l’annuncio cristiano poco significativo per la vita, poco comprensibile e quindi poco desiderabile; oppure può essere accolto come un’occasione propizia – vero kairòs – senza per questo negare gli aspetti critici e anche dolorosi che questo momento storico porta con sé. Ciò che è assolutamente da evitare – e che invece costituisce una delle tentazioni più insidiose negli ambienti ecclesiali – è di rimpiangere le famigerate «cipolle d’Egitto». Al riguardo riportiamo una acuta osservazione del teologo francese Delumeau che afferma provocatoriamente che «è erroneo parlare di “scristianizzazione” in quanto un’epoca completamente cristianizzata non è mai esistita e, probabilmente, a una lettura meno pregiudiziale, quella che riteniamo essere “la fede viva di un tempo” forse non era sempre così viva, allo stesso tempo di come oggi ci sono spazi di fede più ampi di quanto pensiamo: “Il Dio dei cristiani era un tempo molto meno vivo di quanto si credesse e oggi è meno morto di quanto non si dica”».[6]
2. Imparare a stare nel cambiamento: in ascolto della realtà
Si tratta di mettersi in ascolto della realtà, per scorgere in essa la Parola di Dio, il Dio della storia che nella storia si è rivelato, ha realizzato compiutamente la sua rivelazione nell’umanità piena di Gesù di Nazareth e continua a rivelarsi nell’umano di ogni tempo, inabitato una volta per sempre dallo Spirito del Risorto.
La realtà è un dato che occorre saper guardare, osservare in modo critico ma onesto. Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato esorta il popolo di Dio in questo senso: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà […]. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità. […] Vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente».[7]
La realtà è il luogo di Dio. Assumere questo come punto di partenza mette in crisi un certo modo di vivere il cristianesimo, fatto di confini precisi, definizioni, formule e norme da seguire; lo stile di Gesù di Nazareth, uomo libero, aperto, disponibile alla relazione, amante della vita in ogni sua forma, destabilizza oggi le forme irrigidite del cristianesimo così come il suo avvento storico sconvolse la vita della comunità ebraica di Gerusalemme. Gesù, «perturbatore» dell’ordine costituito, generatore di novità e inventore di nuovi linguaggi, nuove parole per parlare al cuore delle persone, riporta la Parola al suo stato primigenio, parola che restituisce all’umano la responsabilità della sua storia, che accompagna l’umano e genera la sua vita.
Mettersi alla sequela di Gesù orienta in due direzioni: la prima è quella di seguire il suo stile, «fare come ha fatto lui», imitarlo nelle parole e nei gesti, attualizzando il suo stile nei contesti della vita quotidiana; la seconda è quella di accogliere il mistero dell’incarnazione come criterio di lettura della realtà. L’umanità di Gesù – umanità di Dio che in questo modo decide di rivelarsi completamente e definitivamente all’umanità – restituisce all’umano la dignità «dell’immagine e somiglianza»; l’umanità abitata da Gesù è una umanità capace di accogliere e rivelare Dio: in Gesù portata alla pienezza, ha in sé la possibilità di essere luminosa e continuare a comunicare la bellezza di Dio-amore.
3. Un nuovo «stile di comunicazione»
Comunicazione è una parola-chiave nell’annuncio del Vangelo. Comunicare è azione complessa, comprende pensieri, parole, gesti, implica una sapiente lettura del contesto e una capacità emotiva e relazionale che non si improvvisa. Comunicare il Vangelo, in questo tempo, vuol dire mettersi in ascolto della realtà e, aiutati dall’esempio di Gesù che giunge a noi dalle pagine dei Vangeli, sperimentare un nuovo linguaggio, o meglio potremmo dire «stile di comunicazione», che renda ragione della bellezza dell’annuncio evangelico, nutrendo i desideri profondi che abitano il cuore dell’umano.
Ed è indubitabile che oggi sul fronte della comunicazione – ma non solo, sia chiaro – la Chiesa stia vivendo un momento di grande disorientamento e difficoltà.
Così si esprime Paola Bignardi riguardo al rapporto tra giovani e linguaggio della Chiesa: «C’è una legge del tempo che, oltre a far invecchiare noi umani, fa invecchiare anche le culture, le tradizioni, anche le più sacre e consolidate»;[8] e ancora, citando Timothy Radcliffe: «Per milioni di giovani il linguaggio della fede semplicemente non ha significato. È antiquato come una macchina da scrivere. Appartiene ad un altro mondo, è un’altra lingua».[9]
Ora, è opportuno sottolineare che quando si dice «antiquato» non si fa riferimento solo alle parole desuete di cui teologia e liturgia sono traboccanti. Il linguaggio nutre l’immaginazione, è quello strumento meraviglioso che ri-crea nella mente la realtà che si desidera comunicare. Ma se ciò che viene evocato in una conversazione è un’immagine fuori dall’orizzonte dell’esistenza o, peggio, una visione disturbante, colpevolizzante, che richiama un mondo irraggiungibile o naïf, si capisce come il linguaggio, bloccato nella palude del fraintendimento e dell’incomprensione, diventi immediatamente strumento divisivo, respingente.
Da un lato, dunque, si tratta di ricostruire una relazione di fiducia con le persone per riuscire a parlare del Vangelo in modo comprensibile, cercando il modo per far cadere pregiudizi e precomprensioni; dall’altro però è necessario da parte della Chiesa mettere in discussione la plausibilità stessa dell’annuncio di fede.
Papa Francesco, in diverse occasioni ha auspicato la ricerca di parole nuove secondo il criterio di una maggiore aderenza alla realtà, a partire dalla vita delle persone. Nel 2017, nel suo Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione in occasione del 25° anniversario della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, Francesco si esprime con una immagine molto efficace: «La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al deposito della fede come a qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come si trattasse di una vecchia coperta da difendere dai parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare».[10]
Da queste parole si comprende come per «linguaggio» non si intenda solo la traduzione formale dei contenuti della fede in una lingua più attuale. Il processo da avviare è soprattutto quello di un ripensamento in vista di una riappropriazione più consapevole e coinvolgente della tradizione e di una proposta di annuncio più comprensibile, e di conseguenza più desiderabile, per l’uomo di oggi.
Infatti, un elemento non di poco conto è che il messaggio veicolato dal linguaggio verbale e non verbale della Chiesa – la sua testimonianza in parole e opere – nella storia ha prodotto anche risultati controversi, nutrendo immagini di Dio molto lontane dall’Abbà narrato da Gesù. Al momento presente possiamo rilevare un analfabetismo religioso diffuso, dovuto certamente al contesto generale di indifferenza e disinteresse e al venir meno della trasmissione generazionale della fede, ma anche – e questo è il punto su cui possiamo e dobbiamo lavorare! – ad un annuncio poco curato, sciatto, frutto di rassegnazione e apatia pastorale.
Il lavoro che ci aspetta è dunque duplice: occorre da un lato decostruire e far evolvere rappresentazioni distorte, frutto di mala educazione, catechismi insufficienti anche solo a livello di socializzazione religiosa; dall’altro, è fondamentale e urgente rileggere e aggiornare alcuni snodi teologici secondo categorie di pensiero attuali e in prospettiva interdisciplinare per renderli comprensibili, desiderabili ed effettivamente portatori di quella pienezza di vita che è aspirazione di ciascuno. È lo stesso Francesco a porre la domanda, a ipotizzare un percorso, immaginando un futuro possibile: «Quale linguaggio usare? […] Certo non quello dell’abitudine. Il linguaggio della vera tradizione è vivo, vitale, capace di futuro e di poesia. Il linguaggio dell’abitudine è invece stantio, noioso, cerimonioso, ovvio. La Chiesa deve stare attenta a non cadere nella trappola del linguaggio banale, delle frasi che si ripetono in modo meccanico e stanco. Il Vangelo deve essere fonte di genialità, di sorpresa, capace di scuotere nel profondo. […] Quanto sono importanti le parole! Gli artisti, gli scrittori, proprio per la natura della loro ispirazione, sono in grado di custodire la forza del discorso evangelico. […] Abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico».[11]
4. Essere e agire come Gesù
Si tratta di incarnare lo stile di Gesù, fare come lui ha fatto, parlare il suo linguaggio, comunicare ciò che lui ha comunicato, perché in quel modo Lui ha mostrato il volto di Dio e nello stesso tempo ha mostrato la strada della vita piena e pienamente umana.
Il papa sottolinea che «non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode, ma di avere la convinzione che lo sviluppo e la crescita sono la caratteristica della vita terrena e umana».[12] È per aiutare le persone a vivere in pienezza e portare la gioia del Vangelo ovunque e a tutti e tutte che è necessario un cambio di prospettiva complessivo.
Le ragioni di questa necessità oggi imprescindibile sono radicate nell’esperienza di Gesù, Dio-con-noi e nutrite dal desiderio della Chiesa di aiutare l’umanità nell’unico cammino di fedeltà a Dio e a se stessa.
Ripensare la fede, iniziare a parlare una nuova lingua sono compiti che la Chiesa può (e deve) assumere con rinnovata responsabilità, ponendo in dialogo tutte le dimensioni del credere e della vita, per rivitalizzare l’umanità e collaborare all’opera di creazione continua che Dio ha affidato all’umano.
La realizzazione concreta di questo nuovo modo di pensare la fede e di comunicarla e trasmetterla passa da una rinnovata coscienza della dimensione e della portata dello stile di Gesù: il suo modo di relazionarsi con la realtà personale di coloro che ha incontrato lungo la sua vita, la scelta delle parole, la libertà e il desiderio di valorizzare il bene che abita in ciascuno, di far emergere la somiglianza con Dio. Gesù, in questo senso, operò scelte controcorrente, al limite e oltre il limite del consentito, fino a perdere se stesso e la sua stessa vita. Il punto è proprio questo. La possibilità di mantenere vivo e operante il messaggio del Vangelo dipende da quanto e come la Chiesa sarà disposta a incarnare e vivere lo stile di Gesù, a lavorare, come papa Francesco ha più volte ricordato «in perdita», senza pensare ai numeri né alla propria sopravvivenza e al proprio potere, tesa solo al bene delle persone, alla loro liberazione, alla loro salvezza.
[1] Docente di IRC al Liceo Classico Europeo e Scientifico del Convitto Nazionale Maria Luigia di Parma. Membro del Centro Ignaziano di Spiritualità “Carlo Maria Martini” (PR).
[2] Ci riferiamo all’espressione coniata da D. Hervieu-Legér citata in A. Fossion, Il Dio desiderabile. Proposta della fede e iniziazione cristiana (Fede e annuncio 59), EDB, Bologna 2010, 31.
[4] Cfr. P. L. Berger, «Modernità e religione», in Note di pastorale giovanile 04 (1994), https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=7065:modernita-e-religione &catid=315&Itemid=1011 (25 -05- 2024); C. Dotolo, L’utopia cristiana dell’umano. Idee per un umanesimo differente, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2022; A. Matteo, Opzione francesco. Per una nuova immaginazione del cristianesimo futuro, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023; A. Riccardi, La chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo (Tempi Nuovi), Laterza Editori, Bari 2011; G. Zanchi, Rimessi in viaggio. Immagini da una Chiesa che verrà, Vita e pensiero, Milano 2018; [4] .
[7] Francesco, Evangelii Gaudium, n. 232.
[8] P. Bignardi, Metamorfosi del credere, 165.
[9] Il testo citato dalla Bignardi è T. Radcliffe, Accendere l’immaginazione. Essere vivi in Dio, EMI, Verona 2021, 15.
[11] Id., prefazione a A. Spadaro, Una trama divina. Gesù in controcampo, Marsilio Editori, Venezia 2023, 9-10.