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L’esempio di Lost

Federico Solini[1]

Abstract

L’articolo intende mostrare come si possa fare teologia a partire da un prodotto della cosiddetta ‘cultura pop’, prendendo come esempio la serie tv Lost. In essa si trovano intuizioni riconducibili al messaggio evangelico e, contemporaneamente, alla condizione dell’uomo postmoderno; per questo motivo è possibile compiere una breve analisi della serie con l’obiettivo di far emergere questi elementi, giungendo infine ad una sintesi che permetta di mettere in luce la ricchezza di significato del Vangelo in rapporto alle domande di senso dell’essere umano. Si sottolineeranno in particolare due necessità: abbracciare un percorso di conversione e riappropriazione del sé più profondo e autentico e mettere al centro la relazione con l’altro, aprendosi all’aspetto comunitario della ricerca della felicità e della salvezza.

1. L’aspetto dialogico della teologia

«Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). Molti ricorderanno il contesto in cui viene pronunciata questa frase tratta dal Primo libro di Samuele. Quest’ultimo si trovava nel tempio del Signore, quando sente chiamare il suo nome. Legittimamente pensa che sia stato Eli, l’unico presente insieme a lui, il quale però nega. Possiamo immaginare il turbamento e lo smarrimento di Samuele, che peraltro stava dormendo e si vede disturbare non una, ma ben tre volte da questa voce misteriosa. A quel punto è proprio Eli che si rende conto che è il Signore a chiamare il giovane; gli spiega perciò come deve comportarsi per far nascere un dialogo con Lui. Questo episodio mette in scena un fatto decisivo: Dio ci parla, lo fa spesso e nei modi più disparati; ma noi siamo in grado di ascoltarlo? Di riconoscere la sua voce in mezzo a tante altre? Di conoscere le modalità attraverso cui si fa presente all’essere umano per cercare un dialogo? Non si tratta di un’impresa semplice. Il mondo contemporaneo, trainato dalla cultura postmoderna, è spesso cacofonico, un groviglio di voci annodate e raggomitolate che sono difficili da discernere; è presente fra di esse anche il suono armonioso della Parola di Dio? La risposta non può che essere positiva: se così non fosse, crollerebbe tutto il cristianesimo, essendo basato sulla grande novità dell’incarnazione, cioè dell’estrema prossimità di Dio nei confronti dell’uomo. In conclusione al Vangelo di Matteo leggiamo: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Dio, insomma, non si prende una vacanza; se abbiamo questa impressione, è perché evidentemente non sappiamo discernere la sua voce. La buona notizia è che questa premessa ci porta ad una consapevolezza decisiva: la rivelazione divina si fa presente e prossima all’umanità nell’umanità stessa; attraverso la sua natura, le sue opere, i suoi atti. Attraverso ciò che è umano, popolare; e trasfigurandolo. Questo è il terreno su cui poggia e fa leva la teologia, nella sua doppia accezione di ‘discorso su Dio’ e ‘discorso di Dio’: il teologo è infatti colui che cerca di gettare luce sul mistero divino – chiaramente nei limiti di ciò che è umanamente possibile – e contemporaneamente che, nel perseguire questo obiettivo, accende questo riflettore sulla maniera attraverso cui Dio cerca il dialogo, cioè l’incarnazione del Logos. Insomma, si tratta di usare il linguaggio dell’uomo per far emergere la Parola di Dio dalla natura e dalle opere dell’umanità stessa.

2. La teologia pop

In questo arduo e fondamentale compito, si sta facendo largo una figura relativamente recente: quella del ‘teologo pop’ o ‘pop-teologo’. Il suo ambito di studio e approfondimento è la cosiddetta ‘cultura popolare’, nei meandri della quale riconosce i segni del dialogo che Dio cerca di mettere in atto con l’uomo, vale a dire la presenza viva della Parola. Eppure è necessario porsi una domanda a monte: cosa si intende con il termine ‘popolare’? Il senso comune tende a interpretare questa categoria come qualcosa di semplice, alla portata di tutti, per distinguerla da ciò che è elitario e quindi raffinato, per pochi. Ciò porta ad una sua svalutazione, diretta conseguenza della scarsa stima che esiste da più parti nei confronti del popolo, dell’uomo ‘qualunque’. Perciò ogni cosa che facesse breccia in maniera evidente all’interno della prassi e del gradimento delle persone, sarebbe indice di un compromesso qualitativo. Questo atteggiamento di sufficienza è una trappola che incide nei più vasti settori della cultura: l’arte, la musica, il cinema, il lavoro, anche la religione. Ciò è problematico, considerato che nell’epoca contemporanea la Chiesa non è più ‘di popolo’ ma ‘di minoranza’,[2] perciò non esiste più quell’abbraccio totale in conseguenza del quale era la religione a dettare le coordinate teoriche e pratiche su cui veniva lavorato il tessuto della società. Ora che il popolo ha abbandonato il discorso religioso, molti di questa ‘minoranza’ sono presi dalla nostalgia dei tempi che furono, in cui Dio e la pratica cristiana erano al centro della vita – sostanziale ma soprattutto formale – delle persone. A custodire questa fiamma affievolita è un’élite preoccupata soprattutto di difenderla dalle raffiche di vento del mondo, ma impedendo così che la religione possa sviluppare gli anticorpi necessari a non ammalarsi ancora di più di quanto non sia già successo. Uno sguardo rinnovato a ciò che è popolare è quindi urgente, oltre che necessario, se non vogliamo perdere di vista il mistero dell’incarnazione. Non si può abbracciare Dio e respingere quanto ha creato e trasfigurato, perché per quanto possa essere ‘bassa’ la cultura popolare – assunto tutto da dimostrare – Dio si fa prossimo anche e forse soprattutto lì. Tutto ciò è Logos, la Parola e il discorso di Dio che diventa carne in noi e nelle nostre opere. Per questo si deve riconoscere la legittimità della teologia pop, che scommette sulla possibilità di trovare i semina verbi nel linguaggio di serie tv, film, musica, letteratura e via dicendo. Si tratta di un approccio già tentato con successo da alcuni teologi, fra i quali si possono citare Brunetto Salvarani, Peter Ciaccio, oppure Mons. Antonio Staglianò, il quale nel definire questa disciplina sottolinea come, nel linguaggio popolare, trovi spazio la descrizione di quel dramma umano[3] che, alla luce dell’incarnazione e sulla scorta del Vangelo, sappiamo che Dio abbraccia e fa proprio. La vita dello stesso Gesù ne è la dimostrazione: il suo uso delle parabole, il suo farsi prossimo anche a coloro che sono più lontani, e quindi la sua capacità di rivolgere una Parola sempre feconda per gli uomini e le donne del suo tempo, lo rendono forse la più grande popstar della storia.

3. Perché Lost?

Un esempio di intreccio fra teologia e cultura popolare è rappresentato dalla serie tv statunitense Lost, prodotta dal 2004 al 2010, opera di grande impatto culturale e intrisa di questioni legate alla sfera religiosa. Essa racconta la storia di alcune persone scampate miracolosamente ad un incidente aereo e che si ritrovano su un’isola deserta, fra la ricerca di una salvezza e la necessità di collaborare per sopravvivere. La serie è idonea ad una riflessione pop-teologica perché risponde ad alcuni criteri. Innanzitutto è un fenomeno realmente popolare, di successo. Una serie tv di nicchia, per esempio, non intercetterebbe la fruizione di molti: non sempre i linguaggi popolari vengono usati per essere accessibili. Il risultato sarebbe quello di proporre una riflessione teologica a partire da ancoraggi che, se già in partenza non sono colti dalle masse, finirebbero per essere non idonei a rendere il Vangelo più comprensibile. Anzi, forse si rischierebbe di complicare ancora di più l’intenzione comunicativa, rimanendo solo un esercizio di stile utile a riaffermare il legame fra Vangelo e cultura pop – certo – ma non a rendere questo legame più chiaro e, soprattutto, incisivo. Chiaramente è difficile definire oggettivamente cosa significhi ‘di successo’ in riferimento ad un prodotto culturale; per questo motivo è velleitario qualsiasi tentativo di creare una linea di demarcazione fra opere per cui la riflessione teologica sarebbe feconda e opere che non giungerebbero all’obiettivo. In linea di principio si può affermare che più un fenomeno è di successo e più sarà facile – anche se non automatico – produrre una teologia dal forte impatto comunicativo. Per quanto riguarda Lost, Manzocco ritiene che «fin dalla prima puntata ci si può facilmente accorgere che la nuova serie dispone di un arpione molto robusto, e che, una volta caduti nella trappola, difficilmente si riuscirà a liberarsene».[4] Il segreto potrebbe risiedere nell’unione fra due approcci diversi alla serialità televisiva, che corrispondono ad altrettante finalità: tenere lo spettatore incollato al divano per finalità commerciali – come la maggioranza delle serie tv attuali – e renderlo fruitore attivo. Per Grossi, Lost è «uno stimolo a trovare, dentro la propria capacità e sensibilità di spettatore attento e critico, una sfumatura di senso che ne esalti l’interesse».[5] Tutto ciò ha portato questa serie televisiva a diventare un fenomeno la cui portata va al di là dei numeri, che non si può quantificare con il semplice elenco di tutti i premi, le candidature o gli ascolti che ha avuto.
Il secondo requisito è la capacità di intercettare il vissuto delle persone. In questo incide il modo in cui sono caratterizzati i personaggi: Grossi evidenzia la facilità di identificazione dello spettatore con i protagonisti, «tutti uniti in un comune senso di smarrimento»[6] ma che al contempo rappresentano vari archetipi ben presenti nell’inconscio collettivo. Questa sensazione di essere lost, persi, rende la serie un luogo permeato di interrogativi che toccano i dilemmi esistenziali e morali dell’uomo, fino al dubbio cartesiano: «io esisto?». Eppure, la particolarità, assurda e originale, di Lost è la capacità di risolvere questa complessità nella più semplice delle narrazioni archetipiche: lo scontro tra la luce e le tenebre, bianco contro nero, bene contro male.
Il terzo requisito, in chiara connessione con i primi due, è il pieno inserimento dell’opera in questione all’interno delle coordinate culturali contemporanee. Usando una metafora, cercare di comunicare con qualcuno tramite il telefono è senza dubbio necessario, ma se non si digita il numero corretto l’intenzione è destinata a rimanere tale. Quindi la volontà di mettere in circolo un prodotto in connessione con le sfumature e i drammi dell’esistenza umana è lodevole, certo, ma devono essere «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi»,[7] non di ieri: altrimenti, riprendendo la metafora di prima, sarebbe come telefonare a qualcuno che ormai ha cambiato numero da tempo. Solo così un fenomeno pop è destinato ad avere successo, solo così gli archetipi su cui sono costruiti i personaggi risultano l’appoggio per la costruzione di figure così simili agli spettatori. Lost riesce anche in questo intento: è un’opera postmoderna a tutti gli effetti, perché la sensazione di smarrimento è il tratto distintivo di questo orizzonte culturale, definito dalla ‘fine delle grandi narrazioni’ enunciata da Lyotard,[8] cioè sull’esaurimento della ‘fede’ umana nelle prospettive che vogliono dare un senso al tutto e che possono essere riassunte in illuminismo, idealismo e marxismo. Esse stesse avevano soppiantato il cristianesimo sostituendo a Dio la razionalità, divinizzando dunque un approccio scientifico – e non di rado scientista – alla vita. Domande, dubbi, il mistero che «diventa filo conduttore di un insieme di punti di vista che provano a dare un senso personale alla propria vita»,[9] l’indeterminazione che «esalta l’ambiguità, il controsenso, il paradosso, l’incerto»:[10] ecco Lost, il manifesto pop di questa nostra contemporaneità, perché «il capire, in modo totale e univoco, non è un onore concesso all’uomo postmoderno».[11]

4. L’isola come luogo della conversione

Si può pensare che sia molto difficile, se non impossibile, identificare un messaggio evangelico dentro una serie tv così lontana dall’orizzonte culturale cristiano e così riluttante alla posizione di verità e di risposte certe. Ma in Lost più che l’annichilimento della verità c’è la proposta di un’altra idea di essa, che «nel suo mostrarsi lascia sempre un fondo di nascondimento e di mistero che devi imparare a custodire come tale».[12] Rimane però il problema di fondo: un’idea siffatta di verità ci impedisce di trovare un’ancora, lasciandoci tutti, spettatori e personaggi, naufraghi. Per questo è così facile identificarsi con questi ultimi: li comprendiamo perché sono fallibili come noi, in primis nel tentativo di trovare risposte definitive alla propria ricerca di senso. Ma non è per loro, per noi, per tutti i naufraghi di ogni tempo che Dio si è fatto uomo? Ecco perché in Lost non c’è solo un’analisi della condizione postmoderna, ma una sintesi del suo superamento, o, per meglio dire, di come il Vangelo possa trovare in essa il terreno fertile per riproporsi come sorgente di senso. Vediamo come. Innanzitutto i personaggi sono modellati secondo il modello adamitico, in quanto paralizzati e spaventati di fronte alla domanda «Dove sei?» (Gen 3,9), oltre ad essere incapaci di darne una risposta adeguata. Questo perché sono perennemente insoddisfatti, in cerca di una stabilità che non trovano, una terraferma che possa mettere a tacere l’irrequietezza. È il caso di Desmond, personaggio che ricalca l’Ulisse omerico, e che giunge sull’isola, a differenza della maggior parte dei losties,[13] proprio in seguito ad un naufragio. Oppure sono il simbolo di un’umanità ferita, spesso lacerata, schiava delle catene del peccato. Molti di loro vengono da una vita di crimini o gravi mancanze, spesso a causa di una superbia che finisce per diventare un boomerang, come successo allo stesso Adamo o ad altre figure mitologiche o letterarie come Prometeo, Icaro o Frankenstein. Che si chiamino Jack, Kate, Juliet, Sawyer – e potrei andare avanti – hanno tutti una cosa in comune: non riescono a perdonare sé stessi e (ri)trovare il proprio posto nel mondo. Tutti i losties, dunque, rappresentano un’umanità perduta, Adamo, l’uomo vecchio; ma in Cristo, ecco sorgere la promessa di salvezza, di ricevere per mezzo di Lui la grazia di essere figli adottivi del Padre e quindi uomini e donne nuovi. C’è un’unica cosa da fare, e ce lo dice Jack – probabilmente il personaggio principale della serie – quando si rende conto che la vita sull’isola non era solo il simbolo del proprio naufragio personale ma anche l’opportunità di una conversione: «We have to go back!», «dobbiamo tornare indietro!».[14]
Nel Vangelo di Luca abbiamo un episodio che narra in maniera eccellente questa dinamica: la parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32). Il figlio minore viene lasciato libero, anche di sbagliare e di perdersi; finché ad un certo punto non è lui stesso a rendersi conto di dover tornare dal padre, il quale non ha smesso per un istante di aspettarlo a braccia aperte. Anche lui, come Jack, rientra in sé stesso, e questa nuova padronanza di sé lo porta alla consapevolezza che ha creato una frattura da ricomporre e che, per fare ciò, non è mai troppo tardi. È questa fiducia che, a partire da Jack, convincerà tutti i losties a non darsi per vinti nella ricerca di sé e ad abbracciare un processo di conversione che si compirà a partire da – e non nonostante – tutte le loro fragilità e vulnerabilità. Si tratta del loro modo per passare da figli di Adamo a figli di Dio, in Cristo. È importante notare che nella serie non c’è nessun riferimento diretto alla dottrina o al pensiero cristiano: tutto si sviluppa in maniera laica, ma è proprio questo che dimostra che il Vangelo ha radici molto profonde e sempre vive all’interno del mondo in cui viviamo e quindi nel modo in cui noi interpretiamo la nostra condizione esistenziale, a prescindere da quali siano le coordinate culturali di questo o quel momento storico. La postmodernità non fa eccezione.

5. Redenzione e comunità ecclesiale

La parabola del Padre misericordioso offre anche un altro spunto decisivo per aiutare ciascuno a riassorbire ogni personale naufragio: ci offre un ancoraggio. Cosa c’è di più importante per chi si sente perso? In Lost viene chiamata ‘la costante’, una sorta di centro di gravità, un punto fermo che rende stabile ogni equazione della nostra vita, così dominata da tante variabili. È sempre il personaggio di Desmond a farci capire di cosa si tratta. Durante la quarta stagione della serie la sua mente compie continui salti temporali fra il 1996 e il 2004, che di certo l’avrebbero condotto alla morte. Aiutato dal fisico Daniel – che gli suggerisce di cercare di contattare una stessa persona sia nel passato che nel presente – riesce a farli cessare dicendo alla fidanzata Penny, durante l’ennesimo salto nel 1996, che l’avrebbe chiamata nel 2004, e chiedendole di rispondere. La sua salvezza dipende da questo: da una – folle – fiducia da parte di Penny nell’aspettarlo, da un legame che va oltre il tempo e lo spazio. È l’amore la costante di Desmond; come di quasi tutti gli altri personaggi di Lost. Lo è anche del giovane protagonista della parabola lucana, che scommette sul fatto che il padre non abbia smesso di volergli bene, nonostante l’incommensurabile distanza – non solo fisica – che aveva creato con lui. Ciascuno può operare il proprio personale processo di conversione solo riconoscendo che esso trova ancoraggio nell’amore sconfinato di Dio, che non dimentica i figli di Adamo proprio per dare loro l’opportunità di tornare a Lui e quindi di rispondere a questa fiducia con la fede. Ma l’amore non è solo qualcosa che lega Dio a ciascuno, ma anche l’immagine di ciò che tiene insieme tutta l’umanità: è proprio l’aspetto comunitario quello in cui questa costante si mostra in tutto il suo valore e il suo senso. Nell’ultima puntata, infatti, vediamo i losties ritrovarsi insieme, ma all’interno di una linea temporale – una sorta di ‘realtà alternativa’ – nella quale apparentemente non si conoscevano[15]. Attraverso varie vicissitudini però si (re)incontrano, come se fosse una vecchia rimpatriata fra amici, come se nemmeno una realtà diversa potesse allontanarli. Si tratta di qualcosa che va al di là della nostra dimensione spazio-temporale,[16] e che connette la comunità umana alla comunità celeste, della quale faremo parte grazie alla vita eterna che ci è promessa in quanto figli adottivi del Padre. Ed è proprio così che succede: i nostri amati personaggi, trasfigurati, abbracciano la pienezza della loro vita all’interno di una chiesa in attesa dell’ultimo viaggio, quello verso il Paradiso. E lo fanno insieme.
Del finale di Lost molto si è parlato da quando è andato in onda per la prima volta, poiché ha dato luogo a varie interpretazioni. Quello che mi sembra certo è che l’isola rappresenti il luogo delle seconde possibilità, che verranno alla fine colte da quasi tutti i personaggi, fino a condurli ad abitare quella ‘realtà alternativa’ – una sorta di Purgatorio? – nella quale il loro processo di redenzione potrà dirsi finalmente compiuto. In aggiunta mostra pienamente anche il senso dell’appartenenza ecclesiale: non si tratta di qualcosa di contingente, bensì di necessario per (ri)trovare pienamente sé stessi come persone, inseriti dentro un rapporto fecondo con Dio, il mondo e gli altri.

6. Per una teologia dell’ascolto

Per chiudere, un altro riferimento utile per comprendere questa dinamica di conversione e inversione – nel senso motorio del termine – che riguarda sia il singolo che la comunità è il brano che ha come protagonisti i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Gerusalemme è la loro ‘isola di Lost’, il luogo in cui hanno sperimentato il loro personale naufragio a causa della morte di Gesù, ma anche quello dove decidono di tornare perché è proprio lì che si è manifestato il Risorto. Si tratta del luogo dove trovano casa sia le loro fragilità e l’esperienza diretta del male, sia il riscatto di tutto questo. Come l’hanno capito? Grazie alle parole di un viandante che ha condiviso parte della strada con loro, e che hanno riconosciuto essere il Risorto. I discepoli di Emmaus lo hanno ascoltato e hanno riconosciuto, nella sua voce, quella del Maestro. Come successo a Samuele prima di loro, e come deve succedere ai teologi, agli operatori pastorali e in generale a chiunque cerchi il Signore. Se la sua Parola risuona a partire dalla terra che l’ha condannato a morte, non sarà certo la cultura pop a soffocarla e costringerla al silenzio.


[1] Docente IRC all’Istituto d’Istruzione Superiore “Enrico Mattei”, San Lazzaro di Savena (BO).

[2]    Cfr. E. Salmann, Passi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede, Cittadella editrice, Assisi 2009, 173.

[3]    Cfr. A. Staglianò, Pop-Theology per giovani. Autocritica del cattolicesimo convenzionale per un cristianesimo umano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, 52.

[4]    R. Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola, Mimesis, Sesto San Giovanni 2010, 10.

[5]    G. Grossi, Lost moderno. Lettura di una serie televisiva, Edizioni di Pagina, Bari 2010, 5.

[6]    Ivi, 6.

[7]    Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965, n.1, in Tutti i documenti del Concilio, Massimo, Milano 2012, 141.

[8]    Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

[9]    Grossi, op. cit., 8.

[10]  Ivi, 9.

[11]  Ivi, 40.

[12]  S. Regazzoni, La filosofia di Lost. Philosophy fiction, Ponte alle Grazie, Firenze 2009, 17.

[13]  Si tratta del nome che gli appassionati della serie hanno dato al gruppo dei personaggi.

[14]  Jack, come altri losties, riesce a tornare a casa fra la quarta e la quinta stagione della serie. Ma presto si rende conto che questo ritorno non si accompagna ad una riappropriazione della propria vita: diventa perciò consapevole della necessità di tornare sull’isola, il luogo in cui poter finalmente fare pace con se stesso.

[15]  Questa linea temporale alternativa viene esplorata nel corso della sesta e ultima stagione.

[16]  Sul tema dell’amore come forza in grado di superare anche confini ‘dimensionali’ come quelli spazio-temporali ci sono molte opere ‘pop’. In particolare si veda il film Interstellar (2014) di Christopher Nolan.