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Marco Tibaldi[1]

Abstract

Lo studio prende in esame gli stimoli che provengono alla teologia dall’istituzione degli ISSR. Siccome la loro natura specifica, rispetto ad altri percorsi accademici, è quella di cercare una nuova sintesi tra fede e cultura, anche la teologia che in essi viene elaborata deve assumere questa connotazione. È questa anche la sfida che papa Francesco invita ad accettare nella fase di cambiamento d’epoca in cui siamo. In questa linea, a giudizio dell’autore, una opportunità ancora poco presente nel panorama italiano è data dall’assunzione delle categorie della semiotica di C. S Peirce, uno dei massimi logici e filosofi del secolo scorso, le cui teorie son state recepite in un filone di studi denominato Teosemiotica.  Dopo averne presentate alcune coordinate, ne vengono date alcune possibili applicazioni, a cominciare dalla teologia trinitaria, in ordine alla definizione dell’importante categoria di relazione.

Introduzione

Nell’Istruzione della Congregazione vaticana per l’Educazione cattolica  parlando degli scopi e delle caratteristiche degli Istituti Superiori di  Scienze Religiose (ISSR) si afferma che la loro finalità specifica consiste nell’elaborare «una sintesi tra la fede e la cultura nella singolarità delle situazioni vissute dalle Chiese particolari».[2] Recentemente, Papa Francesco ha precisato ulteriormente il compito delle istituzioni accademiche teologiche, in relazione alla profondità e rapidità dei cambiamenti in atto[3]  tali da imporre  alla teologia un radicale e coraggioso «cambio di paradigma»,[4] per far aumentare   «la capacità di concepire, disegnare e realizzare, sistemi di rappresentazione della religione cristiana capaci di entrare in profondità in sistemi culturali diversi»,[5] che includono il confronto con il variegato mondo delle scienze, oltre che contribuire alla definizione di leadership politiche, in senso ampio,  capaci di gestire in modo umano le sfide globali del nostro tempo. 
Cerchiamo di delineare allora alcune linee che ci consentano di precisare meglio quale tipologia di teologia possa raccogliere questi impegnativi compiti. 

1. Una disciplina in evoluzione   

L’urgenza segnalata da papa Francesco era comunque già avvertita da tempo all’interno della riflessione teologica più attenta.  Un tentativo di soluzione è stato quello di passare, per dirla in termini semiotici, da una definizione di tipo dizionariale[6]della teologia cristiana che  la presenta  soprattutto in senso intellettuale come «la riflessione intorno al dato rivelato»[7] ad un’altra di impianto enciclopedico,[8]che tiene in maggiore considerazione la ricchezza di significati che il lemma «teologia» ha assunto nel corso dei secoli.[9] Se questa seconda accezione ne valorizza la ricchezza e complessità, dall’altro lato rischia però di  disperderla in tanti approcci diversi, favorendo la crescita delle cosiddette teologie del genitivo,[10] come se non fosse più possibile ritrovare un’anima comune. Dietro a questa proliferazione si cela il presupposto, non sempre adeguatamente tematizzato, di ricercare il fondamento della teologia nella filosofia vincente del momento. È successo così con il razionalismo di stampo illuministico, poi con la filosofia esistenzialista di impronta heideggeriana, quindi con l’ermeneutica, poi con le evoluzioni della filosofia del linguaggio, e ora con le tante correnti del postmoderno (dal decostruttivismo, alla teologia politica).[11]
Tutto ciò ha portato ad una sorta di perdita del proprio luogo della teologia, una sorta di déplacement della scienza teologica, vista con sospetto sia all’interno della compagine ecclesiale, perché giudicata avulsa dai problemi concreti della pastorale, sia dal consesso accademico laico, che la giudica prigioniera di schemi interpretativi obsoleti.[12]
Per reagire al processo di frammentazione e di perdita di identità  della teologia, occorre a giudizio dei teologi milanesi,  riscoprire la sua intrinseca  dimensione critica, che non deve essere presa a prestito dalle filosofie o culture del momento.[13] Si tratta quindi, se capiamo bene, di recuperare la persuasione che la Rivelazione contiene già in sé gli strumenti, anche concettuali, per poter elaborare una teologia in grado di parlare agli uomini del proprio tempo.[14] Ciò non significa ignorare quanto viene prodotto dalla cultura nelle diverse epoche. Si tratta piuttosto di attivare uno sguardo che nasca dalla convinzione, per dirla con San Paolo (1Cor 6,14-15), che è «l’uomo spirituale» che giudica «l’uomo naturale» (e diremmo noi il culturale) e non viceversa.  In questo modo, si può impostare correttamente il rapporto anche con le mutazioni strutturali della cultura, come quella che stiamo vivendo nel nostro tempo. In tale prospettiva, occorre mettere in tensione polare il tesoro del deposito tradizionale con le sensibilità della nostra epoca, in modo che possa accadere quanto è stato affermato in modo efficace da H.U. von Balthasar, in relazione al nucleo sorgivo della fede cristiana: «non esso (il kerygma) si adatta alle necessità nuove di ciascuno tra i periodi storici, bensì questi in esso, sempre identico a se stesso, scoprono aspetti sempre nuovi, che soddisfano le loro mutevoli aspirazioni, così come la luce di una camera da ripresa cinematografica, che giri attorno a una statua di Michelangelo, fa scaturire un gioco sempre nuovo e vivo di luci e di ombre dal prodigio scultoreo».[15]            

2. La cultura postmoderna

Se diamo ora uno sguardo all’altra dimensione con cui la teologia deve interagire, la cultura, possiamo notare che, se è difficile definire cosa sia oggi la teologia, ancora di più lo è tentare la definizione di cosa sia cultura[16] nell’epoca postmoderna.[17] 
Il card. G. Biffi ha riassunto efficacemente le sue molteplici accezioni in tre gruppi di significati:[18]

a) come attività educativa delle giovani generazioni

b) come patrimonio di valori che una società ritiene importante comunicare

c) come ciò in cui si riconosce un gruppo sociale.

A questi significati, oggi occorre aggiungere la cosiddetta «cultura popolare», resa possibile dallo sviluppo crescente dei mezzi di comunicazione e dei new media. Tramite questi, ogni persona dotata di un dispositivo elettronico e di accesso alla rete può potenzialmente diventare produttore di cultura, facendo sì che le proprie persuasioni, di qualunque tipo esse siano, possano diventare virali.[19]
Dall’altro abbiamo, molto più che in altre stagioni, la presenza di un forte meticciato culturale, reso possibile, oltre che dalla facilità delle comunicazioni che hanno reso il mondo un unico villaggio globale, anche dai potenti flussi migratori, che mettono oggi più di ieri a contatto persone di culture e religioni differenti.
Che fare davanti a questa complessità? Una proposta che a nostro avviso non è stata ancora pienamente sviluppata, almeno in ambito italiano, è l’apporto che può dare la semiotica per mettere in luce alcuni snodi comuni della produzione culturale attuale, che consentano poi l’interazione feconda con la teologia.[20]
La semiotica sembra particolarmente adatta a raggiungere lo scopo cercato, per almeno tre buoni motivi. In primo luogo essa è stata definita da U. Eco come la «logica della cultura».[21] La semiotica ha infatti «a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunta come segno».[22]  Detto altrimenti e un po’ provocatoriamente, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire: «Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla».[23] In secondo luogo, la semiotica è giunta per così dire a maturazione proprio nella nostra epoca, nonostante la sua presenza, come riflessione sul fenomeno del segno, sia presente fin dagli albori della filosofia stessa.[24] In terzo luogo essa sembra essere un vero e proprio ponte di collegamento con i testi fondativi del cristianesimo oltre che con gli sviluppi storici della teologia, che ne fanno un ampio uso.[25]  

3. Dalla Teologia alla Teosemiotica

Nel 2020 Michael L. Raposa, professore di Religious studies nell’Università di Lehigth in Pensilvania, in un suo lavoro sulle possibili applicazioni della semiotica di C. S. Peirce conia il termine Teosemiotica,[26] dando così un nome al connubio tra il filosofo americano e la teologia.[27] 
A quel che ci risulta, in ambito italiano e più ampiamente europeo, se si esclude la Gran Bretagna, finora non sono ancora state colte le opportunità di questo nuovo approccio. La semiotica infatti consente, per così dire, di ritornare alle origini profonde del pensiero e dello stesso logos, che finora ha definito la prospettiva metodologica e filosofica della teologia.
Logos è un termine che copre molteplici significati, tra cui spiccano quelli di parola, discorso, ragione.[28] Ora da Aristotele ad Heidegger, per stare nel campo della filosofia, ci si è chiesto come funziona questa capacità propria dell’uomo. Aristotele ha imbastito la questione nel celebre passo del suo Dell’espressione[29] in cui troviamo la costituzione originariamente semiotica del logos. Se questo infatti si può descrivere come un giudizio che la mente compie in relazione alla realtà, il suo meccanismo di funzionamento dipende totalmente da una struttura di impianto semiotico. Per Aristotele infatti esistono delle affezioni dell’anima che sono immagini di oggetti comuni a tutti, che vengono però comprese e comunicate dall’intelletto attraverso i suoni della voce e le lettere che ne sono segni. I primi, le affezioni e gli oggetti ad esse corrispondenti sono universali e necessari per tutti, mentre i segni che le comprendono ed esprimono sono convenzionali e quindi arbitrari.
La semiotica si occupa di descrivere come funziona proprio il dispositivo della significazione, che consente di comprendere ed esprimere ciò che è comune a tutti, anche se con modalità differenti, che necessitano quindi di costante interpretazione.
Martin Heidegger, nel commentare il passo di Aristotele,[30] mette in luce con grande chiarezza la dimensione fenomenologica del logos, che rende manifesto, visibile ciò di cui si discorre. Ad esso corrisponde una concezione della verità intesa non tanto come adeguazione del pensiero ad un modello di realtà, ma come un lasciar apparire, ciò che era nascosto, per cui verità è aletheia intesa come un mostrare, un lasciar emergere liberamente, senza precomprensioni, ciò che c’è.  Il contrario di questo atteggiamento è il coprire ciò che si manifesta, il volerlo tenere nascosto, il non volerlo vedere e quindi mentire. Ricordiamo a tal proposito la definizione di Eco della semiotica come  ciò che serve per per mentire, come anche di poter dire la verità. Vedremo tra poco, come la semiotica di Peirce può gettare luce proprio sul dinamismo del mostrare, del rendere visibile ciò che si offre alla comprensione, cosa che in Heidegger è rimasta sotto traccia.
Se adesso volgiamo il nostro sguardo alle Scritture, possiamo facilmente notare l’abbondante riferimento in esse presente alle categorie del «segno» (semeion) [31] e del processo comunicativo da esso generato, descritto dal termine «significare» (semaino),[32] come si vede esemplarmente nell’incipit dell’Apocalisse, in cui troviamo riassunti per così dire i contenuti e il metodo della Rivelazione: 

«Rivelazione (apokalupsis) di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò (esemanen lat. signum do) inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio (logon tou Teou) e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano (oi akouontes) le parole di questa profezia e custodiscono (terountes) le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino» (Ap 1,1-2).

In questi versetti, troviamo descritto un poderoso processo di comunicazione [33] articolato in due fasi distinte anche se collegate. Nella prima, abbiamo Dio come emittente e Gesù come destinatario di un messaggio (la rivelazione) concernente «le cose che devono presto accadere». Nella seconda, abbiamo Gesù come emittente e i suoi servi (di Dio e/o di Gesù) come destinatari del medesimo messaggio. Nel secondo processo, a differenza del primo che non ne fa menzione, la descrizione del canale è molto più articolata. Si parla, infatti, di un angelo che Gesù ha inviato al suo servo Giovanni che diviene così l’intermediario ultimo della Rivelazione. Questo angelo, che compare spesso nell’Apocalisse, ha la funzione non solo di trasmettere ma anche di interpretare a Giovanni il senso di quanto vede.[34]
La comunicazione implica al suo interno  un processo di significazione, come ricordato  nell’uso del  verbo esemanen  reso  nella traduzione CEI con «manifestò», mentre, in modo più  aderente al testo, U. Vanni lo rende con «espresse in segni».[35] La Rivelazione quindi si configura come un poderoso processo di comunicazione,  innervato dai meccanismi della significazione  ovvero di  processi che, sulla  base di regole soggiacenti,  fanno sì che qualcosa materialmente  presente alla percezione del destinatario stia per qualcosa d’altro.[36] È  questa la logica di funzionamento del segno che, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, implica sempre un rapporto triadico con la realtà: a)il quid che si manifesta, b) le immagini che si generano nella mente e c) l’interpretazione che ne viene data. Questo processo interpretativo accomuna le  scienze della natura, il fenomeno della conoscenza in generale come anche la rivelazione, restando aperto e sempre riformulabile, pena l’impoverimento della realtà di cui parla. La terminologia utilizzata nella traduzione CEI conferma poi l’indole fenomenologica del segno, che ha sempre una dimensione di visibilità tale da renderlo iconico.
Nell’Apocalisse, tutto questo si tocca con mano ad ogni pagina, essendo il testo composto di continue immagini e simboli che provocano ad un costante lavoro di interpretazione. Lo stesso si può dire allora più ampiamente di tutta la Rivelazione che, come ricorda la lettera agli Ebrei, si compone di molti modi di manifestazione (Eb 1,1),  per culminare nel segno per eccellenza: la morte  e risurrezione di Gesù (Lc 11,29-32). La centralità della categoria di segno e dello strumentario che esso implica si distende poi per tutta la storia della teologia, con particolare attenzione nella sacramentaria e oggi nel rapporto con la fenomenologia.   

4. Le opportunità offerte dalla Teosemiotica

Elenchiamo ora a mo’ di esempio alcuni temi decisivi per la sorte della teologia, che possono essere ulteriormente arricchiti, se ripensati da un approccio teosemiotico  come quello che stiamo delineando.

a) Una nuova comprensione della Trinità

            Una tematica che da diversi decenni tormenta la teologia è il superamento della metafisica classica che, fino alle soglie del Novecento, le è servita come impalcatura teorica. È  nota la polemica, scatenata da M. Heidegger, per il quale unire le due dimensioni della metafisica e della teologia genera l’ibrido infecondo dell’onto-teo-logia, incapace di rendere ragione di entrambe.[37] Opportunamente tra gli altri, E. Falque ricorda che il modello prospettato da Heidegger, per consenso unanime, non è mai esistito storicamente, anche se il problema di come superare o aggiornare la metafisica classica è certamente presente e decisivo per le sorti della teologia nei prossimi anni.[38] Per Falque l’approccio fenomenologico, che lui applica anche ai testi della teologia medioevale, contiene interessanti spunti  relativi al ripensamento della relazione tra teologia e filosofia, che per lui devono rimanere, per dirla con R. Guardini, in una feconda tensione polare. Un tentativo interessante è stato quello compiuto da Agostino che, nel V libro del suo celebre De Trinitate, introduce una riflessione sulla categoria di relazione, presentata come decisiva per descrivere la Trinità, con modalità che superino le obiezioni che ad essa venivano mosse dagli ariani. Se questi infatti attaccano le posizioni del  cattolicesimo attraverso un uso capzioso ma in parte giustificato delle categorie di sostanza e accidente, nerbo della metafisica classica, Agostino cerca di argomentare come nella Trinità gli attributi delle tre persone possano essere pensati non solo all’interno di quelle categorie, ma anche attraverso la valorizzazione di un diverso modo di descrizione, dato proprio dall’assunzione della relazione, anche se poi nel libro VII torna ad argomentare secondo le disposizioni  classiche incentrare sulla sostanza.
Ciò che forse mancava ad Agostino era una solida teoria della relazione, cosa che può fare la semiotica di cui stiamo parlando.
Nella visione di Peirce, infatti, tutta la realtà è composta sempre da una relazione triadica. Detto altrimenti la relazione è il vero costitutivo della realtà. Qui il filosofo americano si sta confrontando per criticarlo contro ogni forma di intuizionismo, a partire dalla posizione di Cartesio, che riteneva di poter trovare il fondamento della realtà in una sorta di punto di Archimede isolato da tutto il resto. Questo fondamento invece, essendo costitutivamente relazionale, lo si può trovare solo in una logica di tipo ternario, come quella disegnata in Una nuova lista delle categorie (1867) così identificate: «primità, secondità, terzità». Con questi termini, viene indicata:

  1. l’origine reale di un qualcosa di già presente che si offre alla conoscenza: la primità detta anche da Peirce il Ground o l’Oggetto immediato o anche il rapresentamen,
  2. la reazione che esso suscita in termini di immagini e rappresentazione, la secondità, definita anche come icona o Oggetto dinamico che è segno, sotto certi aspetti, dell’origine da cui è partita la riflessione,
  3.  la terzità intesa come interpretazione di quanto reso presente dalle prime due categorie.[39]

          Nonostante la novità introdotta però, a giudizio di Claudio Paolucci, che anche noi seguiamo come interprete di Peirce, qui il filosofo americano ragiona ancora all’interno del sistema classico, che si basava sulla formulazione di proposizioni intese come rapporto tra soggetto e predicati collegati dalla forma logica dell’inferenza. La vera svolta del pensiero di Peirce avviene alcuni anni dopo, con l’introduzione della «logica dei relativi», che è il motore segreto della sua semiotica e, a giudizio di Paolucci, la sua principale e non ancora valorizzata chiave di volta. Solo questa logica consente di superare quella che Peirce definiva la «sintassi ariana». Il superamento avviene attraverso l’introduzione di un modo di ragionare che Peirce desume analogicamente dalla chimica, in cui ogni elemento assume valore in relazione agli altri, in base alla posizione che occupa all’interno della composizione.  In questa, nessun elemento è più importante di un altro, perché ciò che è determinante è il legame che si instaura tra loro, ovvero la loro relazione. Per questo, conclude Paolucci, «nella Logica dei relativi, il centro della proposizione non è più il soggetto che esprime la sostanza (così nella New List), bensì, il verbo che esprime l’evento e la sostanza non solo perde quella centralità che possedeva in On a New List of Categories, bensì diventa l’effetto di una combinazione di relazioni».[40]   
Conseguentemente a queste nuove acquisizioni, Peirce anche inverte, dal punto di vista fenomenologico, l’ordine con cui aveva presentato le tre categorie della New List. Il punto decisivo è ora la cosiddetta «terzità», che descrive le leggi di regolarità che connotano la realtà. Da questo sfondo infatti è possibile far emergere, per opposizioni, nuove percezioni, sensazioni che generano poi dei segni mentali che le descrivono, come si può vedere nell’esempio della bruciatura da caffettiera citato da Eco, in cui in buona sostanza ci si accorge di essersi scottate le dita perché normalmente questo non succede, nella successione di operazioni quotidiane con cui si prepara il caffè mattutino.[41]
Tralasciando ora le complesse analisi dell’evoluzione del pensiero di Peirce, ritorniamo alle possibili applicazioni alla teologia, riprendendo il filo dei tentativi agostiniani di cui parlavamo.
Secondo le tre categorie illustrate, il Padre come origine ingenerata è la terzità, il fondo eterno,  il fondamento da cui tutto ha origine, da cui si staglia, da sempre, il Figlio come generato a sua  immagine (Gv 12,45) e descrivibile con la categoria di secondità, intesa non in senso temporale,   e lo Spirito che come amore è sia intratrinitariamente l’interprete e il frutto della loro relazione  e sia, in relazione a noi,  il comunicatore per eccellenza («vi insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26). Dal punto di vista fenomenologico, lo Spirito si configura così per noi come una primità perché solo lo Spirito abilita l’uomo a entrare in relazione con il Figlio e con il Padre.[42] 

b) La valorizzazione dell’amore come costitutivo dell’identità cristiana

L’identità di Dio-Trinità è ben descritta da Giovanni come amore (1Gv 4,16). Il passaggio dalle categorie ontologiche della sostanza e degli accidenti alla centralità del verbo, nel secondo Peirce, consente di avere una logica in grado di valorizzare a pieno la centralità dell’amore. [43]  In questo modo, viene riconosciuto il giusto ruolo, anche dal punto di vista epistemologico, al dinamismo dell’amore che implica movimento e non staticità. [44]
Le relazioni tra le persone della Trinità implicano infatti un movimento continuo in cui, per grazia, viene introdotto ogni uomo e in una certa misura anche il creato. Per questo, l’identità del cristiano si gioca nel fare l’esperienza di essere amato incondizionatamente, così come la sua missione si identifica nel rimettere in circolo l’amore che ha ricevuto. Non è sufficiente scoprirsi staticamente “figli di Dio”, se questa acquisizione non si traduce in una prassi, espressa da verbi ben precisi, come descritto chiaramente nel discorso delle beatitudini (Mt 5,1-48) o negli indicatori del giudizio finale (Mt 25,31-46). 

c) Una teologia capace di entrare in dialogo con le scienze

La semiotica di Peirce è a fondamento di un’altra delle sue più famose elaborazioni teoriche della realtà: la teoria del «sinechismo».  Con questo termine, si indica il fatto che tutta la realtà è connessa e con essa sono connessi anche i nostri pensieri, senza soluzione di continuità.[45] 
Ciò che qui ci preme sottolineare è la capacità della semiotica di Peirce e quindi della teologia che la assume come suo impianto categoriale, di entrare in dialogo fecondo con la scienza, come si può vedere nella ripresa delle sue teorie elaborate dal matematico e filosofo René Thom, nella sua teoria delle catastrofi.[46] 
Più ampiamente, ci sembra che la visione della realtà introdotta da Peirce possa essere utilmente messa in relazione con le acquisizioni della fisica quantistica,[47] che stanno riscrivendo sotto i nostri occhi, e senza che in molti se ne stiano accorgendo, le categorie fondamentali di natura, vita, morte, spazio e tempo, solo per citarne alcune.    

Per non concludere

Dai rapidi cenni mostrati, ci sembra così fondata l’ipotesi di poter percorrere, anche in una versione più italiana o quantomeno europea, i suggerimenti provenienti da oltre oceano di utilizzare la semiotica peirciana come piattaforma concettuale per la riformulazione di alcuni temi decisivi della teologia in relazione con le scienze umane, con quelle esatte e più ampiamente con il mondo della cultura postmoderna.         


[1] Teologo, Direttore ISSR “Vitale e Agricola” di Bologna

[2] Congregazione per l’Educazione Cattolica, Istruzione sugli Istituti Superiori di Scienze Religiose, Città del Vaticano 2008, n.4.

[3] Papa Francesco, Costituzione apostolica «Veritatis gaudium» circa le Università e le Facoltà teologiche, Città del Vaticano 2018, n. 3.

[4] Ivi.

[5] Ivi, n. 5.

[6] U. Eco, «Metafora», in Enciclopedia Einaudi, Torino 1981, IX, 206.

[7] www.treccani.it/enciclopedia/teologia (consultato il 28-08-24).

[8] U. Eco, «Significato», in Enciclopedia Einaudi, Torino 1981, XII, 860.

[9] L. Zàk, «Il molteplice significato del concetto di teologia» in G. Lorizio (ed.), Teologia fondamentale, vol.1 Epistemologia, Città Nuova, Roma 2004, 11-55. 

[10] Sulle ultime due, cfr.  G. Angelini – S. Macchi (edd.), La Teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, Glossa, Milano 2008, 381-780.

[11] G. Angelini – G. Colombo – P. Sequeri , «Teologia, ermeneutica e teoria» in C. Colombo (ed.), L’evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988, 21-112. Più ampiamente cfr. G. Angelini – S. Macchi (edd.) La Teologia del Novecento, op.cit., 695-785.

[12] «La crisi d’identità istituzionale della teologia» in G. Colombo (ed.) Il teologo, Glossa, Milano 1989, 25-66. 

[13] Angelini – Colombo – Sequeri, «Teologia, ermeneutica e teoria» in C. Colombo (ed.), L’evidenza e la fede, Glossa, Milano 1988, 21-112.

[14] Colombo , La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 3-57.

[15] H.U. von Balthasar, «Il messaggio di salvezza e il presente», Humanitas, 11(1961), 873.

[16] P. Rossi, «cultura» in www.treccani.it/enciclopedia/ (consultato il 28/08/24).

[17] Per un’analisi critica, cfr. M. Tibaldi, Annunciare Gesù. Invito al mistero cristiano, ed. Kindle, 2020, 19-30; I. Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 2004.

[18] G. Biffi, Per una cultura cristiana, Piemme di Pietro Marietti, Casale Monferrato (AL) 1985, 7-12.

[19] P. Benanti, Digital age: Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società, San Paolo Edizioni, Edizione del Kindle.

[20] P. Martinelli, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario nella teologia di H.U. von Balthasar, Jaca Book, Milano 1995, in particolare: 197-224;367-390.  M. Tibaldi, Kerygma e atto di fede nella teologia di H.U. von Balthasar, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, 121- 240; Id., «Per una teologia del segno. Note a margine dell’approccio semiologico di mons. R. Fisichella», in G. Pasquale – C. Dotolo (edd.), Amore e verità. Sintesi prospettica di Teologia Fondamentale. Studi in onore di Rino Fisichella, Lateran University Press, Roma 2011, 653-674; Id., «La teologia al servizio della nuova evangelizzazione. Verso un approccio ‘teosemiotico’ alla Rivelazione», in La Rivista del Clero Italiano, Gennaio 2013, (XCIV), 28-42; U. Volli, Domande alla Torah. Semiotica e filosofia della Bibbia ebraica, L’Epos, Palermo 2012; A. Ponso, Qohelet o del significante. Proposta di interpretazione mistagogica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019. 

[21] U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, 13-45.

[22] Ivi, 17.

[23] Ivi.

[24] C. Paolucci, Strutturalismo e interpretazione, Bompiani, Milano 2019, ed. del Kindle, 26.

[25] Per l’epoca antica cfr. come esempi: Giovanni di San Tommaso, Trattato sui segni, (ed. a cura di F. Fiorentino) Bompiani, Torino 2010; C. Marmo, La semiotica del XIII secolo, Bompiani, Torino 2010.

[26] M.L. Raposa Theosemiotic: Religion, Reading, and the Gift of Meaning, Fordham University Press, New York 2020; l’Autore da tempo aveva indirizzato i suoi studi al rapporto tra la teologia e la filosofia di Peirce come testimonia: Id., Peirce’s Philosophy of Religion, Indiana University Press, Bloomington 1989.  

[27] Nel mondo anglofono tale riflessione annovera già molti contributi. Ricordiamo a mo’ di esempio: P. Ochs, Peirce, Pragmatism, and the Logic of Scripture, Cambridge University Press, Cambridge 1998; D. L. Gelpi, “The authentication of doctrines: hints from C. S. Peirce” in «Theological Studies» 60, 1999, 261-293; R. S. Corrington, A Semiotic Theory of Theology and Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2000; W. P. O’Brien,“The Eucharistic Species in Light of Peirce’s Sign Theory” in «Theological Studies» 75(1), 2004, 74-93.   

[28] Logos in https://www.treccani.it/enciclopedia/logos_(Dizionario-di-filosofia)/ (consultato il 28-08-24).

[29] Aristotele, Dell’Espressione 1, 16 a, Opere, vol I, Laterza, Bari 1973, 51.

[30] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, 52-53.

[31] K. H. Rengstorf, «σημεῖον», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1979, XII, 17-171.

[32] Id., «σημαίνω», in ivi,171-181.

[33] U. Eco, Trattato di semiotica generale, 49-61. 

[34] U. Vanni, Apocalisse di Giovanni, Cittadella, Assisi 2018, vol. 2, 37.

[35] Id., Apocalisse di Giovanni, Cittadella, Assisi 2018, vol.1, 70.

[36] U. Eco, Trattato di semiotica generale, op cit.,24.

[37] M. Heidegger, «La struttura onto-teo-logica della metafisica» (1957), in Identità e differenza (a cura di di G. Gurisatti), Adelphi, Milano 2009, 76-77.

[38] E. Falque, Dio, la carne e l’altro: da Ireneo a Duns Scoto, Le Lettere, Firenze 2015, 41-45.

[39] M. Bonfantini, Introduzione a «La semiotica cognitiva di Peirce», in Id., (ed.), Charles Sanders Peirce. Opere, Bompiani, Milano 2011, 19-36.

[40] Paolucci, «Logica dei relativi, semiotica e fenomenologia. Per un Peirce “non-standard”», in M. Bonfantini –  R. FabbrichesiS. Zingale, (edd.),  Su Peirce. Interpretazioni, ricerche, prospettive, Bompiani, Milano 2015, 110.

[41] Ivi, 120.

[42] H.U. von Balthasar, Teologica. II, Verità di Dio, Jaca Book, Milano 1987, 5.

[43] Ivi, 17-49.

[44] H.U. von Balthasar, Teodrammatica. IV L’azione, Jaca Book, Milano 1986, 300-301.

[45] Paolucci, Strutturalismo e interpretazione, Bompiani, Milano 2019 Edizione del Kindle, 78.

[46] Ivi, 99.

[47] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, 118.