Al momento stai visualizzando Parole di antichi saggi per la formazione dei giovani

Osservazioni su Proverbi 22,17–23,11

Marco Settembrini[1]

Abstract

Il contributo illustra antiche lezioni impartite ai giovani dai saggi dell’antico Israele, tramandate all’interno di una delle sette raccolte di cui si compone il libro dei Proverbi. Con tono confidenziale, alternando argomentazioni a descrizioni, si intende avviare l’adolescente alla giustizia.
Per divenire saggio il giovane deve imparare a riconoscere i diritti del prossimo, persino del più povero, di cui i confini che ne delimitano il campo di proprietà sono il segno più eloquente. I confini che il ragazzo deve vedere nel mondo in cui si muove devono poi rimandarlo a riconoscere i confini in cui egli deve crescere, confini interiori che lo trattengono dal prevaricare in gesti di collera (imparati da compagni esuberanti) e, viceversa, dal precipitarsi con sciocca generosità a sostegno di persone sconosciute. La sapienza si otterrà in un delicato equilibrio di attenzione al prossimo e di attenzione al proprio cuore, nella cura della giustizia e delle proprie passioni.

Introduzione

All’interno della Bibbia, i cui scritti sono concepiti per istruire, infondere speranza e consolare (Rm 15,4), il libro dei Proverbi [= Pr] raccoglie in modo speciale insegnamenti, parabole, enigmi e massime utili a giovani e anziani, perché chi è inesperto si faccia scaltro e chi è saggio accresca in sapienza (Pr 1,1-6).
La genesi di questo libro è verosimilmente legata al sistema educativo dell’antico Israele che, come nelle coeve società del Vicino Oriente, faceva ricorso a sillogi di matrice sapienziale per formare i ragazzi. In scuole domestiche, così come in ambienti legati al palazzo o al tempio, gli scribi impartiscono lezioni ai propri figli e ai loro compagni. Li avviano alla lettura chiedendo loro di copiare e memorizzare testi che hanno preso forma grazie alle tradizioni orali locali, spesso in un dialogo fecondo con le riflessioni delle culture straniere con cui si è venuti a contatto.[2]
Il libro dei Proverbi, tradizionalmente attribuito nel suo insieme al mitico re Salomone, offre al lettore sette collezioni, ciascuna delle quali si apre con un titolo: “proverbi di Salomone, figlio di Davide, re di Israele” (1,1), “proverbi di Salomone” (10,1), “parole dei saggi” (22,17), “anche questi sono detti dei saggi” (24,23), “proverbi di Salomone che hanno trascritto gli uomini di Ezechia, re di Giuda” (25,1), “parole di Agur, figlio di Iakè” (30,1), “parole di Lemuel, re di Massa” (31,1). Come si nota, sotto l’egida dell’illuminato figlio di Davide si rinvengono riflessioni di varia provenienza. Si menzionano infatti anonimi “saggi”, un certo “Agur” e “Lemuel”, sovrano di un popolo arabo.[3]
In quanto segue ci si sofferma sulla terza raccolta, contenuta in Pr 22,17-24,22. Probabilmente di epoca monarchica (ossia VIII-VII sec. a.C.)[4] è di speciale interesse per i puntuali rimandi a un più antico componimento egiziano, per le speciali caratterizzazioni di matrice giudaica ma soprattutto per le acute osservazioni di carattere pedagogico che contiene. I ragazzi si nutrono delle parole che ascoltano e divengono ciò che “mangiano”, hanno bisogno di confini con cui cimentarsi, per quanto stimolati da sane ambizioni non devono assolutizzare il danaro.

1 “Ascolta le parole dei saggi” (Pr 22,17–24,22)

All’interno del libro questa sezione è facilmente individuabile grazie all’introduzione con cui si apre (22,17-21). Essa si distingue poi da quanto precede e da quanto segue per la struttura in strofe, anziché in distici, nonché per il tono confidenziale, argomentativo e descrittivo, anziché apodittico lapidario. Come all’inizio di Pr 1, anche qui i versetti di apertura delineano la finalità dello scritto, concepito a un tempo perché si rafforzi l’adesione al dio dei padri, Yhwh, e perché si acquisiscano qualità apprezzate in chi sarà chiamato a fungere da consigliere e da messaggero:

Porgi l’orecchio e ascolta le parole dei saggi,
poi applica il tuo cuore alla mia scienza.
18 Saranno invero deliziose quando le custodirai nel tuo ventre,
saranno presto pronte sulle tue labbra.
19 Perché stia in Yhwh la tua fiducia ti istruisco oggi, proprio te.
20 Ecco, ho scritto per te più volte in materia di consigli e di scienza,
21 per farti conoscere con verità parole fidate
in modo da riportare parole fidate a quelli che ti inviano (Pr 22,17-21).

Con grande immediatezza il brano si rivolge all’allievo, facendo riferimento al suo orecchio, al cuore, al ventre, alle labbra. Questi deve usare intelligenza (l’orecchio) e discernimento (il cuore) poi scoprirà che quanto ascolta si deposita in lui come il cibo, perché gli insegnamenti saranno per lui un vero alimento. Il ventre, che in altri passi di Pr è descritto come un magazzino a più stanze (es. Pr 20, 27.30), fungerà quindi da deposito perché al momento opportuno i detti che ha inteso affiorino sulle sue labbra togliendolo d’impiccio. L’alunno è coinvolto nelle sue caratteristiche essenziali: deve mettere a frutto la propria curiosità e ascoltare, mettere in gioco ciò che gli sta in petto (il termine ebraico lēb, “cuore”, indica anzitutto ciò che costituisce il “centro”), fare attenzione alle emozioni di cui il ventre (beṭen) è la sede vitale (cfr. Sal 31,10; 44,26). A scuola sentirà questioni che lo riguardano.
Le parole indirizzate al ragazzo assomigliano a cioccolatini: “deliziose”. Sono per il suo stomaco ma sono pure da ruminare e trovarsi pronte sulle “labbra”. Concretamente il ragazzo dovrà esercitarsi a leggere a voce alta, ripetere delle frasi muovendo la bocca, scoprendo con soddisfazione come siano capaci di saziarlo e come lo irrobustiscano alla stregua di un cibo particolarmente nutriente. Le parole sagge sono in fondo simili al miele (Pr 16,24).
Lo scriba che si rivolge allo studente si accinge a presentare “parole di saggi” e “la (propria) scienza” (v. 17).[5] Ciò che gli offre sarà la sua sapienza, informata da detti che a sua volta ha ricevuto dai saggi (non è necessario scorgere due distinti repertori di insegnamento). Costoro, all’interno di questa sezione, si rivelano essere uomini persino di altre culture, come suggerisce l’uso di termini e stilemi stranieri, nella fattispecie aramaismi e egizianismi.[6] Il v. 20 rimanda in particolare al componimento egiziano noto come L’insegnamento di Amenemope, in cui l’omonimo ufficiale del faraone distribuisce in trenta stanze i suoi appassionati moniti a vantaggio del più piccolo dei propri figli. A “trenta” questioni (šelōšîm) faceva invero riferimento il testo ebraico prima che venisse corretto quando la citazione non fu più compresa.[7]
Tornato alla luce il poema egiziano citato,[8] il richiamo alla sua prima e ultima strofa risulta evidente:

Porgi il tuo cuore e ascolta ciò che è detto,
poni il tuo cuore a intenderlo: è utile metterlo nel cuore,
ma guai a chi lo trascura.
Fa’ che riposi nello scrigno del tuo petto,
sicché faccia da soglia del tuo cuore,
e, quando ci sarà una bufera di parole,
faccia da àncora alla tua lingua.
Se passerai il tuo tempo con questo nel cuore,
lo troverai come una fortuna,
ritroverai le mie parole come un magazzino di vita
e sarà prospero il tuo corpo sulla terra (I strofa: 3,9–4,1).[9]

L’autore sacro trasmette i frutti della sapienza, raccolti ora dalle labbra dei propri maestri israeliti ora dai colleghi stranieri. Nella finzione letteraria, il medesimo Salomone d’altronde accolse a palazzo una delle figlie del faraone (1Re 7,8). Teologicamente si afferma che la sapienza è a disposizione dei discendenti di Adamo (prima che dei soli discendenti di Abramo) e che immancabilmente porta a Yhwh, come si insegna in Pr 8.
I riferimenti ad Amenemope proseguono in tutta la prima parte della sezione (ossia in Pr 22,17–23,11). Da quel rotolo si attinge il materiale ritenuto di maggior interesse, lo si integra con altre fonti per disporlo in punti strategici. Lo scriba comincia con l’inizio del rotolo in suo possesso, lo scorre fino alla fine, torna indietro, poi di nuovo avanti per cinque volte, sempre selezionando materiale di suo interesse e rimodellandolo in base ai propri obiettivi.[10]
Nel suo insieme la raccolta dei saggi (Pr 22,17-24,22) si suddivide in due parti, a loro volta articolate in due sequenze:

22,17–23,11  prima parte (ossia “la collezione di Amenemope”)
22,17-21                      introduzione
22,22-28                      sequenza I
22,29–23,11                sequenza II
23,12–24,22             seconda parte
23,12-25                      sequenza I
23,26–24,22                sequenza II

Qui ci si sofferma sulla sola prima parte (Pr 22,17-23,11).

2 “Non spostare i confini”

Le due sequenze che compongono la “Collezione di Amenemope” chiudono con il monito a non spostare i confini (Pr 22,28; 23,10). A simile divieto si giunge passando per diverse esortazioni che si susseguono commentandosi reciprocamente, articolando un percorso in cui il giovane è invitato a una vita giusta, prudente. Deve essere consapevole dell’energia contenuta nelle passioni e bilanciare l’attenzione al prossimo e al proprio cuore.
Nella prima sequenza (Pr 22,22-28) così si legge:

22 Non depredare il povero: egli è povero
Non schiacciare il misero alla porta della città:
23 il Signore difenderà la loro causa
e priverà[11] della vita coloro che li hanno privati (dei diritti).
24 Non ti associare a uno posseduto dall’ira
e non andare con l’uomo iracondo,
25 per non apprendere i suoi sentieri,
perché ti infileresti in una trappola per la tua vita.

26 Non essere di quelli che stringono la mano,
tra quelli che garantiscono i debiti:
27 se poi non avrai da pagare,
perché si deve sfilare il letto di sotto a te?
28 Non spostare il confine antico,
che hanno fatto i tuoi padri.

Nella prima strofa si esige anzitutto di curare la giustizia, guardandosi dal ledere la dignità dei miseri. Alla porta della città, dove si riuniscono gli anziani per giudicare le vertenze, si deve ricordare che – misteriosamente – i poveri hanno al loro fianco come avvocato il Signore stesso. Questi, nel caso siano privati dei loro diritti, intenterà una causa che porterà gli empi a essere privati della loro stessa vita.
Le preoccupazioni del saggio ricalcano di fatto gli interventi del profeta Isaia, che rimprovera e minaccia chi abusa del proprio potere:

Quale diritto avete di schiacciare il mio popolo,
di pestare la faccia ai miseri? (Is 3,15a)
Guai a coloro che decretano provvedimenti iniqui
e si impegnano a comporre sentenze gravose,
per negare la giustizia ai poveri
e per depredare del diritto i miseri del mio popolo,
per fare delle vedove la loro preda
e per defraudare gli orfani (Is 10,1-2).

Pure nelle Istruzioni di Amenemope Dio stesso interverrà a riparare all’ingiustizia perpetrata:

Guardati da derubare il povero e da far violenza al debole […].
O Luna, metti sotto accusa il suo crimine! (II strofa: 4,4.19)

Evocata l’ira di Dio, ovvero lo zelo con cui si presta aiuto al misero, si considera l’ira degli uomini. Pr 22,24 volge infatti l’attenzione al “collerico” (alla lettera, “il signore dell’ira”), da non frequentare, come si sa anche in Egitto, specie se potente:

Non associarti all’uomo focoso,
non farti vicino a lui per parlare.
Preserva la tua lingua dal rispondere al tuo superiore,
e guardati dall’oltraggiarlo.
Fa’ che non scagli la sua parola contro di te
per prenderti al laccio,
e non dar briglia sciolta alla tua risposta (IX strofa: 11,13-18).

Per lo scriba israelita accompagnarsi a chi è facile all’impetuosità significa infilarsi in una trappola mortale. Bisogna pertanto stare attenti sia ai deboli (rispettandone la dignità) sia a chi è fin troppo energico, perché in entrambi i casi si rischia la vita.
In ciò che segue (Pr 22,26-27), la trappola appena menzionata richiama l’insidia per eccellenza, ovvero la garanzia per i debiti altrui. Con cattivi raccolti e amministrazioni insensate, non di rado accadeva di trovarsi pressati a concedere garanzie a vantaggio di vicini, compagni e parenti, che potevano finire per trascinare altri in rovina. Le raccomandazioni al riguardo sono numerose:

Chi garantisce per un estraneo si troverà male,
mentre chi odia strette di mano vive tranquillo (Pr 11,15).
È privo di senno l’uomo che dà la sua mano,
colui che si fa garante per il suo prossimo (Pr 17,18).

In Pr 11,15, con un’efficace allitterazione, si suggerisce che “dare garanzie” (‘ārab) non porta affatto a farsi amici (rā ‘â hit.) bensì a “farsi del male” (rā ‘a‘): ra‘ yarôa‘ kî ‘ārab zār. Come più avanti si rincalza, chi dà la mano per assicurare copertura perde il cuore, ossia il senno (Pr 17,18), e si merita di perdere pure il vestito (20,16). Una simile raccomandazione si ritrova già nei proverbi sumerici di Shuruppak, mitico re antediluviano che dice al figlio:

Non fare da garante, la persona avrà altrimenti una presa su di te (l. 19).[12]

Dopo tali ammonimenti si ribadisce quindi: “Non spostare il confine antico” (Pr 22,28). L’ingiunzione vale tanto in ottemperanza alle tradizionali norme di giustizia, da intendere alla lettera, quanto in senso metaforico. Dal momento che alle origini del mondo l’Altissimo stabilì i confini delle nazioni e, all’interno di Israele, il possesso di ogni famiglia è stato tratto a sorte da Giosuè (Dt 32,8; Gs 7,14), nessuno (neppure il re) può permettersi di espropriare il vicino. Paradigmaticamente nella narrazione di 1-2 Re la confisca illecita della vigna di Nabot costa al sovrano di Samaria la perdita di settanta figli (1Re 21; 2Re 9-10). Secondo il libro dei Proverbi Yhwh demolisce il palazzo del ricco ma consolida i confini della vedova (Pr 15,25). Mosè prescrive:

Non sposterai i confini del tuo vicino, posti dai tuoi antenati, nell’eredità che ti sarà toccata nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso (Dt 19,14).

Con maggiori argomentazioni Amenemope raccomanda:

Non rimuovere la pietra di confine sui limiti dei campi,
non disturbare la posizione della corda (per misurare).
Non adirarti per un cubito di terra,
non buttar giù i confini della vedova:
è un solco d’arato che ha diminuito il tempo di vita;
colui che ha truffato sui campi, anche se tramerà con falsi giuramenti,
sarà imprigionato dalla potenza della Luna (Amenemope, VI strofa: 7,12–8,15).[13]

Per divenire saggio il giovane deve pertanto imparare a essere giusto, cominciando a riconoscere i diritti del prossimo, persino del più povero, di cui i confini che ne delimitano il campo di proprietà sono il segno più eloquente. I confini che l’adolescente si abitua a riconoscere nel mondo in cui si muove possono poi addestrarlo a riconoscere i limiti entro cui esprimersi, margini interiori che lo trattengono dal prevaricare con i gesti di collera di compagni esuberanti e, viceversa, dal precipitarsi con sciocca generosità a sostegno di persone sconosciute. La sapienza si otterrà in un delicato equilibrio di attenzione al prossimo e attenzione al proprio cuore, nella cura della giustizia e delle proprie passioni.

3 “Non affannarti per arricchire”

La seconda sequenza della “collezione di Amenemope” torna alla raccomandazione del rispetto dei confini (Pr 23,10) dopo avere perlustrato il rischio dell’ambizione. Si legge:

29 Hai visto un uomo sollecito nel lavoro?
Egli starà al servizio del re
non al servizio di gente oscura!
1 Quando siedi a mangiare con uno che ha autorità,
bada bene a quanto hai davanti;
2 mettiti un coltello alla gola,
se hai molto appetito.
3 Non bramare le sue ghiottonerie,
perché sono un cibo fallace.

4 Non affannarti per arricchire,
desisti dalla tua intelligenza.
5 Volerà il tuo occhio su ciò che non c’è più,
poiché si fa ali come di aquila e vola in cielo?

6 Non mangiare il pane dell’avaro
e non bramare le sue ghiottonerie,
7 perché, come uno che calcola in sé stesso,
ti dirà: “Mangia e bevi”,
ma il suo cuore non è con te.
8 Vomiterai il boccone che hai mangiato
e rovinerai le tue parole gentili.
9 Non parlare agli orecchi di uno stolto,
perché egli disprezzerà le tue sagge parole.

10 Non spostare il confine antico,
e non entrare nel campo degli orfani,
11 perché chi li riscatta è forte
e difenderà la loro causa con te (Pr 22,29–23,11).

Gli insegnamenti prendono le mosse dall’apprezzamento per lo scriba di vaglia, destinato a incarichi prestigiosi.[14] Il maestro stimola l’ambizione dell’allievo ma subito lo mette in guardia: trattare coi potenti è complicato perché sono volubili, hanno tratti insidiosi. Quelli non sono necessariamente intelligenti, laddove il giovane si lascia facilmente allettare dal cibo e, peggio ancora, dalla brama di denaro.
I detti si agganciano gli uni gli altri scivolando con naturalezza da un tema all’altro. L’uomo capace sa stare di fronte al re (Pr 22,29) mentre l’adolescente per il momento deve saper contenersi davanti a un piatto gustoso (23,1). Ciò che gli sta innanzi è infatti una pietanza ma, soprattutto, un potente (“quanto hai davanti”, si riferisce provocatoriamente sia alla pietanza sia all’ospite). Gli si dice quindi ironicamente di mettersi alla gola il coltello (da non usare pertanto per tagliare la carne!) e di badare a non mangiare troppo perché quanto più accetta dall’ospite tanto più resterà a lui debitore.[15]
Il cibo offertogli è “menzognero” perché accompagna parole menzognere e in fondo, stranamente, non sazia, tradendo le attese del ragazzo. I pasti si devono invero consumare nell’amicizia, nella fiducia reciproca, nella concordia. A tavola si rinsaldano legami autentici, mentre qui la dissimmetria tra i commensali è sospetta. Con le parole di un altro proverbio si direbbe: “Meglio un piatto di verdura con l’amore di un bue all’ingrasso con l’odio” (Pr 15,17).
L’ingordigia travalica poi la sala da pranzo, manifestandosi nella brama di denaro. Per questo si dice di non usare troppa scaltrezza: l’intelligenza porta guadagni ma occorre ricordare che la ricchezza può subire ammanchi improvvisi e dunque bisogna tenere a freno l’intraprendenza. Aspirare a troppo denaro espone a facili delusioni: è come illudersi di afferrare un’aquila (Pr 23,5).
Sin dalla prima pagina del libro si è detto del resto che il guadagno cattura chi lo prende (Pr 1,19). Non si deve pensare insomma di fare carriera approfittando del favore dei grandi. Per quanto si sia tentati, in loro compagnia, di mangiare in abbondanza e di parlare disinvoltamente approfittando della familiarità che è concessa, occorre sorvegliare le proprie parole. A chi sta in alto preme più il proprio status: “come uno che calcola in sé stesso, ti dirà: ‘Mangia e bevi!’ ma il suo cuore non è con te” (23,7). La traduzione greca, probabilmente anche a causa della difficoltà di rendere talune espressioni, trasmette un ritratto del ricco a un tempo impietoso e più esplicitamente teologico:

Se poni il tuo occhio su di lui, sarà stimato nulla,
perché gli sono state preparate ali come di aquila,
e ritorna alla casa del suo Padrone (…),
al modo in cui uno ingoia un capello, così mangia e beve (Pr 23,5.7gr).[16]

L’allievo è sollecitato piuttosto a considerare chi davvero è potente, ovvero Dio. Questi, come già sottolineato, non pensa a sé stesso e neppure ai carrieristi bensì a chi ha davvero bisogno (Pr 23,10-11). “Chi li riscatta è forte” (Pr 23,11): allorché il debole manca di qualcuno che si faccia carico del suo affrancamento, Dio subentra, al modo del gō’ēl previsto per il parente che, caduto in miseria, è stato costretto ad alienare la sua proprietà (Lv 25,25).
Come si vede, l’osservanza dei confini si radica in una concezione sociale e cosmica. I confini, solcando la terra del popolo, individuano spazi di vita, ultimamente protetti da Colui che alle origini ha posto un argine alle acque perché sulla terra asciutta comparisse la vita, per tutti. Nella rievocazione degli inizi si celebra infatti il momento in cui Dio dapprima fasciò il globo con le acque dell’oceano poi le fece recedere:

Tu hai coperto (la terra) dell’oceano come una veste;
al di sopra dei monti si ergevano le acque.
Al tuo rimprovero esse fuggirono,
al fragore del tuo tuono scapparono via.
Salirono sui monti, discesero nelle valli,
verso il luogo che avevi stabilito per loro;
hai posto un confine che passeranno,
non torneranno più a coprire la terra (Sal 104,6-9).

Così come le acque impetuose rispettano i limiti fissati, ogni abitante e popolo della terra può occupare gli spazi assegnati senza cancellare la presenza dei vicini perché permanga la molteplicità concepita alle origini. Così come il mondo assumendo dei contorni trova una fisionomia, l’uomo troverà sé stesso riconoscendo i limiti da non varcare.

Conclusione

Le istruzioni raccolte sono certamente elementari e nondimeno costituiscono un documento prezioso per la storia della pedagogia. Ogni cultura elabora i propri proverbi e lì sedimenta osservazioni convalidate da secoli di esperienza, tradotte in brevi efficaci parole. In Pr 22,17-23,11 gli scribi dell’antico Israele divulgano aforismi attinti dalle autorevoli scuole egiziane, rifoggiati secondo la propria tradizione. Vi si sofferma sull’osservanza dei confini per elaborare una propria concezione del rispetto della tradizione, dei diritti del prossimo per il riconoscimento della propria indole.
I testi commentati si prestano evidentemente a essere arricchiti da altre concezioni e riflessioni. Da un lato il reiterato appello al rispetto dei confini oggi risuona come un invito alla custodia dell’integrità di territori ora invasi e terreno di guerra (penso all’Ucraina). Dall’altro l’accento posto sulla moderazione può risultare di intralcio al progresso, che pone traguardi sempre più impegnativi sulla base dei miglioramenti nelle abilità e nelle tecnologie. Di certo, come si esplicita nella sezione di Proverbi appena esposta, le parole che ascoltiamo restano il cibo che quotidianamente assumiamo e che, presto o tardi, fornirà l’energia per le nostre azioni e ispirerà i nostri consigli.


[1] Direttore del Dipartimento di Storia della Teologia. Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.

[2] Z. Schwáb, Proverbs: An Introduction and Study Guide, T&T Clark, London – New York 2023, 6-18.

[3] In merito alle ipotesi avanzate circa l’identità di Agur, si veda M. V. Fox, Proverbs 10–31: A New Translation with Introduction and Commentary, Yale University Press, New Haven 2009, 852. “Massa” è citata in Gen 25,14 e 1Cr 1,30.

[4] Cfr. Fox, Proverbs 10–31, 499; Schwáb, Proverbs, 22.

[5] Il confronto con la traduzione greca suggerisce che il testo ebraico rechi traccia di una rielaborazione. Una versione più antica probabilmente leggeva: “Porgi l’orecchio e ascolta la/e mia/e parola/e (dbry), poi applica il tuo cuore alla mia scienza”. A margine sarebbe poi stato aggiunto “saggi”, a indicare l’inizio della sezione debitrice degli apporti dei saggi, e tale glossa sarebbe poi stata copiata dopo dbry in modo da ottenere il titolo per la raccolta di Pr 22,17–24,22: “le parole dei saggi”. In greco si registra una doppia lezione che verosimilmente preserva sia la lezione più antica sia quella più recente: “Porgi l’orecchio alle parole dei sapienti e ascolta la mia parola”. Cfr. R.J. Clifford, Proverbs (OTL), Louisville 1999, 204.

[6] Si veda ad es. al v. 21 il sostantivo qōše, “verità”, o l’uso di beṭen, “ventre”, conforme alla concezione egiziana dello stomaco come magazzino (es. Insegnamento di Amenemope 3,9–4,1). Cfr. Fox, Proverbs 10–31, 504–505; 708.

[7] In Pr 22,20 si legge ora una correzione, per cui le consonanti presentano la parola šilšôm (lett. “tre giorni fa”) laddove le vocali indicano la forma šālîšîm (“cose selezionate”), sempre legata alla radice del numerale “tre” (šlš), mentre i Settanta, seguiti dalla Vulgata, comprendono “tre volte” (τρισσῶς, tripliciter). Il maestro che parla al v. 20 ha scritto insomma “trenta questioni” ma chi ne ha tramandato l’opera non riesce più a individuare i trenta passi a cui allude e pertanto corregge il suo manoscritto in maniera discreta. Nella traduzione qui proposta, con “più volte” si cerca di preservare il rimando al passato (šilšôm), e alla ripetizione (τρισσῶς), elementi distintivi della consegna di materie importanti (šālîšîm).

[8] Scoperto verso la fine dell’Ottocento, fu pubblicato in traduzione inglese nel 1923. Il primo a osservare la dipendenza di Pr da quest’opera fu Adolf Erman nel 1924, poi negli anni Sessanta del secolo scorso si raggiunse un ampio consenso al riguardo, cf. J. A. Emerton, «The Teaching of Amenemope and Proverbs XXII 17-XXIV 22: Further Reflections on a Long-Standing Problem», in Vetus Testamentum 51 (2001) 431-465; N. Shupak, «The Instruction of Amenemope and Proverbs 22:17–24:22 from the Perspective of Contemporary Research», in R. L. Troxel – K. G. Friebel – D. R. Magary (a cura di), Seeking Out the Wisdom of the Ancients. Fs Michael V. Fox, Penn State University Press, University Park 2005, 203-220. Risalente al XIII-XI sec. a.C., L’insegnamento di Amenemope fu recepito in Israele verosimilmente in epoca saita (VII-VI sec. a.C.), periodo al quale si datano numerose copie del componimento, ben diffuso negli ambienti scribali. Come suggerisce V. P. M. Laisney, fu presumibilmente dapprima rielaborato in una silloge ebraica per confluire quindi in Pr 22,17–23,11, poi in Pr 22,17–24,22 (L’Enseignement d’Amenemope, Pontifical Biblical Institute, Roma 2007, 246). Una sintetica presentazione del testo è offerta in W. T. Wilson, Ancient Wisdom. An Introduction to Sayings Collections, Eerdmans, Grand Rapids 2022, 47-54.

[9] La traduzione è tratta da E. Bresciani (a cura di), Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi, Torino 2007, 579-596. L’opera si chiude poi con un’esortazione: “Osservati queste trenta stanze: esse svagano e istruiscono, esse sono alla testa di tutti i libri, esse fanno che l’ignorante conosca (…) Uno scriba esperto nel suo mestiere è trovato degno di essere un uomo di corte” (XXX strofa: 27,7-10).

[10] Si veda M.V. Fox, «From Amenemope to Proverbs. Editorial Art in Proverbs 22,17–23,11», ZAW 126 (2014) 76-91, in part. 79.

[11] Il senso preciso del verbo ebraico qāba‘ è oggetto di discussione, cfr. Fox, Proverbs 10–31, 714.

[12] La collezione sumerica in questione, di carattere sapienziale, risale a metà del III millennio a.C. Ricopiata e tradotta in accadico per secoli, è attestata anche in Siria-Palestina, dove a Ugarit se n’è rinvenuta una copia. Nella finzione dell’opera Shuruppak si rivolge al figlio Ziusudra (l’eroe del diluvio universale nella tradizione sumerica). Cfr. R. J. Clifford, Proverbs, Westminster John Knox, Louisville 1999, 10.

[13] Il testo continua: “Guardati da chi fa questo sulla terra: è un oppressore del debole, un nemico che distrugge il tuo corpo, e gli porta via la vita col suo occhio. La sua casa è il nemico della città, i suoi granai saranno distrutti, le sue cose saranno portate via di mano ai suoi figli, la sua proprietà sarà data a un altro. Guardati da calpestare i confini dei campi, che un terrore non ti porti via. Si fa contento dio con la potenza della Luna, quando determina i confini dei campi. Se vuoi che sia prospero il tuo corpo, stai attento al Signore Universale [Ra]”.

[14] Lo scriba māhîr (“rapido, sollecito”) è impiegato a corte, come si vede in Esd 7,6 (a proposito dello stesso Esdra) e in Sal 45,2.

[15] Nell versione greca Pr 23,2 è tradotto: “bada bene a ciò che ti è messo davanti; e stendi la mano sapendo che dovrai preparare cose simili”. La differenza si motiva forse per la presenza nel testo ebraico di due termini hapax legomena sconosciuti (śakkîn e a, rispettivamente “coltello” e “gola”).

[16] Il verbo ebraico šā‘ar (“calcolare”), hapax nel Testo Masoretico, è letto come il sostantivo śē‘ār (“capello”). Il verbo “ingoiare” è poi inserito come esplicitazione e in conformità con la tecnica della doppia traduzione. La corrispondenza tra l’ebr. śā‘ar (“travolgere”) e il gr. katapiō (“inghiottire”) si ritrova anche in Sal 58[57],10.