Al momento stai visualizzando LIBERARE L’INTELLIGENZA: CARITÀ INTELLETTUALE E PENSIERO MORALE IN ANTONIO ROSMINI

Lucia Campogrande[1]

Abstract

Lo studio intende considerare la questione della necessità di ricomporre la frattura di fede e ragione per una nuova sintesi di fede e cultura, tema al centro della metodologia e delle finalità degli ISSR, allo scopo di affrontare l’attuale emergenza educativa, accogliendo l’invito del Magistero della Chiesa, che indica alcune vie da percorrere. Una di queste vie è costituita da quella che Antonio Rosmini chiamava «carità intellettuale». Nella prospettiva auspicata di un allargamento della ragione ad una dimensione di libertà, si considera la figura di Rosmini il cui pensiero, ed in particolare il pensiero morale, metafisicamente fondato, è stato capace di rispondere alle sfide della sua epoca e può illuminare anche la nostra, con uno spirito di innovazione che, senza opporsi alla tradizione, manifesta un chiaro impegno nel rinnovamento della pensabilità del rapporto di fede e ragione.

Introduzione

Nella Lettera Enciclica Fides et Ratio Giovanni Paolo II menziona Antonio Rosmini come modello esemplare per un ripensamento della filosofia cristiana e della teologia, accanto a John Henry Newman, Jaques Maritain, Edith Stein ed altri, a servizio del bene della Chiesa e di tutta l’umanità.[2] Aiutare la coscienza degli uomini di oggi a recuperare il senso globale ed integrale dell’esistenza: ecco ciò che per Antonio Rosmini ha significato l’espressione «carità intellettuale». La carità da lui concepita è intelligente, aperta agli stimoli dei tempi e delle circostanze e questa prospettiva di carità innerva tutta la sua opera. Nel tentativo di entrare nelle pieghe e nelle piaghe della modernità, lo sforzo speculativo del filosofo di Rovereto è sempre stato accompagnato dalla preoccupazione di indicare con chiarezza le conseguenze pratiche di tale speculazione, necessarie, a suo avviso, alla sfida dell’educazione cristiana. L’attuale emergenza educativa chiama ogni educatore, cristiano e non, a porsi una domanda di fondo: come rendere ragione della speranza per educare alla speranza? Occorre a tale proposito chiedersi se davvero sia venuta meno la speranza di poter ricercare nei tentativi della filosofia risposte significative. In Fides et Ratio il pontefice è perentorio: la filosofia deve recuperare con forza la sua vocazione originaria, di umana ricerca della verità. Da teologi cristiani che sono stati anche grandi filosofi e dalle loro vicende personali possiamo dunque trarre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che tragga vantaggi considerevoli dal confronto con i dati della fede. Per Benedetto XVI «la questione fondamentale e decisiva dell’educazione»[3] richiede di «allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme».[4]
Si rivolge così, in particolare, ai docenti di religione ed auspica che il loro insegnamento, nel mostrare la profonda umanità della dimensione religiosa, giovi agli alunni nell’aprire ad una dimensione di libertà, facendosi «vera carità intellettuale».[5] Il cambiamento d’epoca rende importante l’esercizio della carità intellettuale oltre che materiale: lo ha sostenuto Papa Francesco, che ha ribadito la necessità un’educazione sana, che sappia proporre valori morali, spesso veicolati dalle culture religiose, per fronteggiare le tendenze individualistiche e conflittuali.[6] Lo stesso Francesco ha citato la carità intellettuale del Beato Antonio Rosmini come un atteggiamento essenziale in grado di illuminare e orientare anche la ricerca teologica.[7]

1. Apertura metafisica e radicamento nell’essere della nostra mente

Alle soglie del secondo millennio, Giovanni Paolo II dichiara l’intento di rivolgere lo sguardo alla filosofia quale peculiare attività della ragione e si annovera tra coloro che ritengono di non aver mai smesso di credere nelle potenzialità di «una filosofia di portata autenticamente metafisica».[8]
Il Magistero riconosce il merito della filosofia moderna di aver messo fruttuosamente al centro l’uomo e pure sottolinea che «quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una realtà che lo trascende»[9] e che «senza riferimento ad essa, ciascuno resta in balia dell’arbitrio».[10] La filosofia ha tralasciato di orientare la sua ricerca all’essere, confidando unicamente nell’ umana conoscenza. Da questa curvatura dello sguardo, che preclude alla ricerca della verità in senso metafisico, sono derivate varie forme di relativismo che hanno portato la ricerca filosofica a «smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo».[11]
Un buon antidoto per i più disillusi e per i momenti di sconforto di ciascuno, può rivelarsi l’insegnamento di Maurizio Malaguti,[12] con il suo invito a «vivere in filosofia», ovvero collocarsi in un ritrovato orizzonte veritativo. Il Professor Malaguti ci ricorda quanto si inganni chi tende a ridurre la filosofia a generico esercizio intellettuale e ci sprona a rivolgerci alla dimensione metafisica. Nella convinzione che si sia smarrito il significato profondo di cosa significhi pensare, egli riattualizza la notizia dell’essere parmenideo, attraversando la corrente agostiniana, che pone l’essere nella radice più interiore della soggettività.
Il punto di partenza di Malaguti è il recupero di una metafisica del pensiero fondante e individua in Antonio Rosmini uno degli interpreti più geniali di questa tradizione. Il filosofo di Rovereto è in grado di riproporre, rimanendo in dialogo con la filosofia kantiana, la distinzione tra il pensare come intueor,ovvero come intuizione dell’essere ed il conoscere rivolto alle cose, distinzione che nella filosofia moderna si era persa e anche oggi è da riconsiderare.
Di fronte al panorama culturale della prima metà dell’Ottocento, egli ripropone ed attualizza la tradizione platonico-agostiniana. Nel suo pensiero riecheggia infatti il tema agostiniano della illuminazione. Agostino riconosce nella mente umana, mens, una capacità intellettiva, la ratio superior e una ratio inferior, la quale è rivolta agli enti finiti, ovvero la distinzione tra intelletto (intellectus) e ragione (ratio).
Rosmini intende l’intellectus di Agostino come intuito dell’essere: non è possibile il pensare del soggetto pensante se non a partire dalla presenza dell’essere. L’intelletto è partecipativo e cioè partecipa di un raggio divino. Nelle opere successive al Nuovo saggio sull’origine delle idee e segnatamente nella postuma Teosofia, Rosmini elabora una dottrina che ha un ruolo cardine nel suo pensiero, quella delle tre forme dell’essere (forma ideale, forma reale e forma morale) e chiama la notizia dell’essere presente alla soggettività pensante essere ideale. L’ essere ideale non è il concetto universale dell’essere frutto di uno sforzo speculativo, ma un astratto divino, poiché è Dio stesso che liberamente astrae dalla sussistenza dell’Oggetto assoluto, ovvero il Verbo, l’essere ideale che manifesta alle menti.[13] L’idea è l’essere intuito dall’uomo e non il Verbo. In tal modo Rosmini evita ogni interpretazione del suo pensiero in senso ontologistico, poiché l’essere ideale oggettivo non coincide con l’Essere assoluto divino, ma è piuttosto un’appartenenza divina, un raggio della sua luce, che Egli partecipa nelle menti intelligenti. La sfida per Rosmini, che ha il coraggio di riproporre tale dottrina ad una società tardo illuminista e materialista, è quella di riuscire a distinguere l’essere ideale sia dall’intelligenza divina che lo origina per astrazione, sia dagli enti reali finiti.[14] È Ideale in quanto separato dalla personalità reale del Verbo, quindi presentantesi nella forma oggettiva e impersonale, si dà all’intuizione umana della mens, che in quell’atto ne risulta informata: l’essere ideale è dunque forma della mente, nel senso che «informa la mente»[15] in quanto prima verità dell’intelligenza, lume della ragione che «accende» la mente, la fonda. La relazione tra essere ideale e mens è dunque quella tra principio e principiato e non quella tra causa ed effetto, per cui, a partire da essa, la mens è essenzialmente apertura costitutiva all’essere. Maurizio Malaguti ritrova nell’accorgimento teoretico rosminiano la trasparenza dell’originario fondamento ed è in questi termini che egli, sulla scorta di Rosmini, ripensa la dimensione metafisica propria dell’uomo.[16] Rosmini definisce la modalità con cui l’essere ideale si manifesta alla mens come il «per sé noto»,[17] ovvero la prima verità, che la mens riceve e sulla base della quale può conoscere e dedurre tutte le altre idee.
Il punto di partenza radicalmente ontologico ha come conseguenza che l’essere ideale, in quanto forma dell’intelligenza, sia anche forma della conoscenza, cioè fondamento dell’intelligibilità degli enti. A partire dalla forma ideale dell’essere, Rosmini procede per deduzione ad una seconda forma dell’essere: la forma reale. Le due forme dell’essere sono tali in quanto distinte ma al contempo in relazione necessaria: all’essere ideale oggettivo, «per sé noto», principio di intelligibilità, corrisponde il principio soggettivo reale che lo riceve. Vi è una relazione costitutiva tra queste due forme dell’essere. La mente stessa è per Rosmini atto di relazione, laddove «questa relazione esprime la costitutiva apertura della mente all’essere che ad essa si manifesta quale principio fondante».[18]

2. Riconoscersi fondati nell’essere è il principio della morale.

La morale rosminiana non comincia nell’uomo, ma ha le sue radici nell’essere, è una delle specifiche forme dell’essere, è l’essere stesso.[19] La sua speculazione scorge la relazione essenziale tra l’oggettività dell’essere e la soggettività umana. Rosmini insiste sulla oggettività del bene ma questa deve incontrarsi con la nostra soggettività reale.
L’intuizione passiva dell’essere ideale, che si manifesta alla mente e in questo la fonda, accendendola con la sua luce, è principio di intelligenza e origina al contempo la tensione amativa: questo vinculum, che è amore, è la terza forma dell’essere (forma morale, definita anche «per sé amato»), che «perfeziona il soggetto intelligente costituendo quella tensione amativa che realizza e potenzia l’adeguamento del soggetto reale al suo oggetto ideale».[20]
Il pensiero sulla moralità umana, che ha origine in questo vincolo, è riscattata da ogni deriva relativistica nel riunire in sé la dimensione soggettiva e quella oggettiva: «L’uomo incomincia ad essere attualmente morale quando aderisce con la sua propria attività volontaria all’essere in tutta l’estensione del suo ordine».[21]
Non è sufficiente conoscere il bene per compierlo, ma è necessario che la verità sia voluta, ovvero amata, voluta come bene: in questo consiste la moralità.

3. «Segui nel tuo operare il lume della ragione»

Nei Principi della scienza morale (1831), definita da Augusto del Noce la più grande opera etica della modernità,[22] il tema rosminiano della forma dell’intelligenza si salda alla questione morale. Ciò che era chiaro a Rosmini riguardo all’epoca in cui scriveva è oggi quantomai attuale: uno dei più grandi problemi del paradigma culturale odierno è che la scienza morale pare aver perso terreno. La scienza morale fornisce le norme, quelle che Rosmini definisce le «regole dell’onesto e del giusto». Queste norme, si chiede l’autore, hanno valore in sé o sono soggette al mutare dei tempi, dei costumi e delle leggi positive?
La necessità di obbedire alla legge morale dell’onesto e del giusto non deriva dal fatto che in tale obbedienza l’uomo trovi il suo perfezionamento: la perfezione dell’uomo è un effetto conseguente di tale obbedienza, ma non è la ragione di essa. L’affermazione di Rosmini non è affatto scontata per la nostra sensibilità contemporanea. Inoltre vi è un grande equivoco contro cui ci metteva in guardia Rosmini: la morale è stata per lungo tempo così confusa con altre scienze affini, da trovarsi oggi totalmente assorbita nell’Eudemonologia e ad aver perso i suoi principi fondamentali, che sono l’oggetto della trattazione che Rosmini si propone di svolgere. Rosmini cita a tale proposito alcuni autori, storici e contemporanei, responsabili di aver stravolto a tal punto l’Etica che la felicità è divenuta il nuovo fine e la virtù il mezzo per ottenerla con un grave esito: se la virtù da fine è ora considerata un mezzo per la felicità, essa perde il suo valore assoluto e si relativizza.
Si è persa la capacità di interrogarsi su cosa sia la virtù e perciò: «conviene dunque che l’Etica prima ci dica che cosa sia la virtù in se stessa, e poi ci potrà aggiungere che ella è un mezzo all’umana felicità».[23] Poco manca, invece, aggiunge Rosmini, che la virtù sia degradata dallo stato di signora a quello di fantesca.
L’essenza della moralità non si trova nell’uomo, ma è «contemplata riflessivamente dall’uomo»[24] e da lui «pronunciata nettamente».[25] Evitare il bene e fuggire il male: vi è un riconoscimento della mente umana, mediante il quale essa forma i giudizi morali. È la luce dell’essere che, costituita l’intelligenza, avendola accesa con la sua luce, si pone come principio di ogni atto e di ogni giudizio e azione morale. La prima legge morale viene così espressa da Rosmini: «segui nel tuo operare il lume della ragione».[26] La formula riesce a ribaltare la narrazione ancora ispirata alla cultura settecentesca: per gli illuministi seguire la ragione significava porgere il massimo ossequio ad una ragione intesa in senso soggettivistico. Di qui si è fatta strada la posizione di coloro che attribuiscono al soggetto i caratteri divini dell’oggettività morale: «cotesti vi parlano spesso, con un tuono pieno di entusiasmo, del divino dell’uomo, e vi fanno l’uomo legge a se stesso».[27] Alla base dell’errore vi è la confusione tra la dimensione ideale dell’essere, il lume della ragione, forma e principio dell’intelligenza e la mente reale soggettiva. La ragione considerata in se stessa può essere fallibile, laddove non segua il lume che, al contrario, «non ammette in sé errore, poiché non dipende egli punto dallo spirito umano, né dalla sua industria è acquisito e procacciato ma è in lui innato, in lui messo e spirato dallo spirito del creatore».[28] Il riferimento rosminiano all’essere ideale come prima legge morale ha le sue radici nella classicità, ancora prima che nel mondo cristiano: Cicerone nel De legibus (52 a.C.) affronta il tema di una legge morale eterna che non è frutto dell’ingegno e dell’arbitrio umano. Rosmini cita proprio il passo di Cicerone relativo alla legge morale prima dei riferimenti a scrittori ecclesiastici come Girolamo, che individua il giudizio del bene in arce animi e Bonaventura, che lo colloca in apex mentis, nella rocca dell’animo, nell’apice dell’anima umana.[29] Il lume della ragione è il raggio mediante il quale Dio effonde in ogni uomo l’idea dell’onesto e del giusto. Così l’uomo scopre nell’intimo «una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve invece obbedire».[30]

Conclusione

Il pensiero rosminiano è stato considerato da alcuni intellettualistico per la sua costruzione rigorosa e la non sempre facile comprensione del suo stile di scrittura, ma vale la pena addentrarvisi per scorgere «il sugo della storia». Anche Manzoni, che pure critica talvolta la prosa ricercata dell’amico filosofo, riconosce il valore della sua speculazione.[31] Le manzoniane Osservazioni sulla morale cattolica (1855) rivelano l’interesse comune per la morale e tradiscono, in alcuni passaggi, la presenza di suggestioni scaturite dal fascino del trattato rosminiano.[32] In esso si riabilita l’intelligenza come fondamento della dignità dell’uomo, superando il primato della ragione illuministica, chiusa in se stessa. Alla cultura di derivazione settecentesca, alla quale riconosce il pregio di aver riavviato un dibattito filosofico ormai stagnante, Rosmini risponde offrendo un’indagine sull’autentico significato del pensare umano. Riesce a ripresentare quindi la questione gnoseologica per distinguerla da quella relativa alla facoltà intellettiva e mette in luce il nesso ontologico che esiste tra le due componenti dell’intelletto e della ragione conoscitiva. Risolvere la ricerca metafisica nella dottrina della conoscenza, come nell’idealismo, ha portato allo smarrimento del senso metafisico del fondamento dell’autocoscienza e quindi a sacrificare le più profonde istanze dello spirito umano.[33]
L’idea dell’essere, che, come abbiamo visto, fonda l’intelligenza e di conseguenza è anche principio di ogni nostra conoscenza si qualifica inoltre come primo principio della legge morale. Rosmini invita a considerare la connessione ineliminabile che esiste tra ogni atto dell’essere, ogni ente che si attua nell’orizzonte dell’essere, e il bene morale. La sua speculazione definisce la morale come una forma dell’essere. Perciò il bene morale riacquista la sua valenza oggettiva, dal momento che l’intelligenza è capace di elevarsi al di sopra dei sensi e considerare i beni in sé stessi e non come mezzi, compiendo così un atto di giustizia. Al contrario la maggior parte delle teorie filosofiche del tempo di Rosmini procedevano in altra direzione e consideravano il bene da una prospettiva esclusivamente soggettiva oppure, al contrario, attribuivano all’oggetto ciò che è proprio dell’uomo, come nel caso de sensisti. L’opzione rosminiana è quella di un sistema che integra il soggetto e l’oggetto. Il suo sforzo teoretico si configura come una vera e propria missione, animata da una cristiana carità intellettuale, a servizio della Chiesa e della società.
Gli argomenti che Rosmini intende riaffermare sono quelli dell’esperienza cristiana, che hanno una validità universale, a suo avviso ancora capace di interloquire con la cultura della sua epoca. Quest’ultima si proclamava artefice dell’«invenzione della libertà»,[34] ma ignorava il significato originario della tanto agognata libertà, esercitata ormai a piacimento nella scelta arbitraria del bene o del male, dimenticando che la dignità dell’uomo è raggiunta quando egli «liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene».[35]


[1] Docente di IRC, iscritta al corso di Laurea Magistrale presso l’ISSR di Bologna. Il presente Studio è stato elaborato a partire dall’esercitazione per il Baccalaureato in Scienze Religiose presso lo stesso Istituto.

[2] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et Ratio, 14. 09. 1998., Paoline, Cinisello Balsamo, 1998, n. 74, 108-109.

[3] Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro degli Insegnanti di Religione Cattolica, Aula Paolo VI Città del Vaticano, 25. 04. 2009, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Papa Francesco, Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4. 02. 2019., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019.

[7] Francesco, Lettera apostolica in forma di «motu proprio» Ad theologiam promovendam, 1. 11. 1023, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2023.

[8] Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 83.

[9] Ivi.

[10] Ivi.

[11] Ivi.

[12] Maurizio Malaguti (1942-2018) è stato professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

[13] N. Ricci, La «prossimità» come fondamento delle relazioni umane nella filosofia morale di Antonio Rosmini, in Dossi M, Ghia F., Diritto e diritti nelle tre società di Rosmini, Brescia, Morcelliana, 2014, 112.

[14] N. Ricci, Antonio Rosmini: per un rinnovamento della metafisica, in U. Muratore, Una profezia per la Chiesa. Antonio Rosmini verso il Vaticano II, Comunità San Leolino, Feeria, Panzano in Chianti 2010, 116.

[15] A. Rosmini, Teosofia, t. 1, in M. A. Raschini, P.P. Ottonello, A. Rosmini, Teosofia, Istituto di Studi filosofici, Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Città Nuova, Roma-Stresa 1998, 425.

[16] N. Ricci, Antonio Rosmini: per un rinnovamento della metafisica, op.cit., 111.

[17] Cf. A. Rosmini, Teosofia, t. 1.

[18] N. Ricci, La «prossimità», op.cit.,114.

[19] C. Bergamaschi, L’essere morale nel pensiero filosofico di A. Rosmini, La Quercia, Genova 1982, 36.

[20] N. Ricci, La «prossimità», op.cit.,115.

[21] A. Rosmini, Teosofia, t. I, op.cit., 192.

[22] N. Ricci, Essere e libertà. L’attualità dell’etica rosminiana nella lettura di Del Noce, in S. Azzaro, R. Azzaro Pulvirenti (a cura di), Augusto Del Noce (1910-1989) Filosofia politica, crisi morale e storia contemporanea, Atti del Convegno nel ventennale della morte di Augusto Del Noce (Roma 20 novembre – Cassino 21 novembre 2009), Pagine s.r.l., Roma 2011, 167-185.

[23] Ivi, 40.

[24] Ivi.

[25] Ivi.

[26] Ivi, 56.

[27] Ivi, 63.

[28] Ivi, 57.

[29] Ivi, 58.

[30] GS 16: EV 1/1369.

[31] M. Dossi, Il Santo proibito, EDB, Bologna 2021, 27.

[32] Cfr. A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023.

[33] M. F. Sciacca, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Fratelli Bocca, Roma 1955, 47-48.

[34] Cfr. J. Starobinski, L’invenzione della libertà 1700-1789, Abscondita, Milano 2018.

[35] GS 17: EV 1/1370.