Al momento stai visualizzando Amore ed educazione affettiva nel pensiero di Karol Wojtyła

Giorgia Pinelli[1]

Abstract

Il contributo intende analizzare da un punto di vista pedagogico la produzione filosofico-letteraria di Karol Wojtyła/Giovanni Paolo II, con particolare riferimento al tema dell’educazione all’amore. La riflessione wojtyłana, pur non nascendo in ambito prettamente pedagogico, muove tuttavia da un’intenzionalità dichiaratamente pedagogica e si innesta su un’esperienza educativa concreta. Ciò spiega i suoi molteplici aspetti di originalità, solo in parte esplorati. Tra i “sentieri interrotti”, che nell’opera di Wojtyła meritano ancora di essere percorsi e segnati, spicca certamente un tentativo (filosofico e pedagogico assieme) di giungere ad una definizione di amore, sessualità, affettività in un paragone costante con l’esperienza, accanto ad una visione globale ed integrata della persona. Ne emergono “linee di senso” pedagogico, che nel nostro odierno orizzonte “liquido” possono costituire ragionevoli ipotesi di lavoro, in ordine all’ educazione all’amore delle giovani generazioni.

Premessa

Quando si parla di educazione “affettiva” o “all’amore”, il nome di Karol Wojtyła (1920-2005) è tendenzialmente associato alla sua riflessione di carattere etico o teologico-pastorale, che ha goduto di maggior diffusione in ambito ecclesiale. Mi riferisco in particolare al saggio Amore e responsabilità (1960) e al lungo ciclo di catechesi sull’amore umano proposto durante le “udienze del mercoledì” nei primi anni di pontificato, tra il 1979 e il 1984, poi pubblicato con il titolo di Uomo e donna lo creò (1985). Si tratta delle sue opere più note sul tema, benché appaiano oggi già in parte dimenticate o “neutralizzate” come trattazioni morali, “applicazioni di teologia cattolica” interessanti solo per chi di quella teologia condivida i presupposti, dunque inabilitate a parlare all’uomo contemporaneo.
In realtà il corpus wojtyłiano (rispetto al quale anche il magistero petrino di Giovanni Paolo II si pone in continuità[2]) presenta diversi “sentieri interrotti” non ancora sufficientemente esplorati nella loro potenzialità pedagogica. Perché questa esplorazione possa darsi, e coerentemente con la prospettiva e le intenzioni dichiarate a più riprese dallo stesso Wojtyła, è necessario avere coscienza del più ampio sfondo antropologico in cui anche la sua riflessione etico-teologica affonda le radici. Una comprensione puntuale dei suoi lavori più noti, ad esempio, non può esimersi da un confronto con il suo opus magnum filosofico, Persona e atto (1969), e con la “metafisica della persona” da lui inaugurata, illuminata anche dalla produzione poetica e drammaturgica da lui avviata fin dalla prima giovinezza.[3]
Poiché in questa sede non mi è possibile esaminare in modo esauriente i capisaldi dell’antropologia wojtyłiana, rimando per questo a lavori precedenti[4] limitandomi qui a valorizzarne gli originali impliciti pedagogici, nutriti da una concreta esperienza di pastore ed educatore. Tra i punti di interesse in tale direzione è notevole in primo luogo il tentativo di fondare la riflessione circa l’affettività e l’amore sulle strutture fondamentali dell’esperienza che, pur nell’infinità di differenze e sfumature, ogni uomo vive. Tali strutture possono infatti essere riconosciute da chiunque esamini spassionatamente se stesso e prescindono da qualunque orientamento religioso o filosofico/ideologico.[5] In questa cornice si colloca l’enfasi attribuita all’atto come luogo di manifestazione e di conoscibilità della persona. Il punto di partenza non è quindi una definizione di “persona”, da cui eventualmente ricavare norme di azione e prassi in ordine alla vita affettiva. Al contrario, si comincia sempre dall’esame dell’uomo in azione. Wojtyła dà voce a questo convincimento in diversi passi di Persona e atto, e in numerosi saggi correlati: «[Persona e atto] non sarà uno studio dell’atto che presuppone la persona […]. Sarà invece studio dell’atto che rivela la persona; studio della persona attraverso l’atto. […] L’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela. Esso ci permette nel modo più adeguato di analizzare l’essenza della persona e di comprenderla nel modo più compiuto».[6] In realtà egli non accantona né rigetta un preciso sfondo metafisico-teologico, ma è come se lo sospendesse per riguadagnarlo “dal basso”, in un percorso nel quale virtualmente chiunque può accompagnarlo, senza pregiudiziali.
L’appello all’esperienza è per Wojtyła anche un modo concreto di operare, come attesta la scelta di sottoporre i manoscritti preliminari di Amore e responsabilità al confronto serrato con lo Srodovisko.[7] Si tratta di un principio di metodo che non perde valore per chi voglia educare i giovani all’amore oggi: essere dove loro sono e partire da ciò che essi vivono, offrendo ipotesi di lavoro per coglierne il significato. Non si educa se non intervenendo sull’esperienza del soggetto, e sul modo in cui questi se la rappresenta e la comprende.
Un ulteriore e cruciale snodo è costituito dalla tematizzazione della persona come unità integrata di diverse componenti, reciprocamente ordinate da una finalità intrinseca che pervade tanto la prima quanto le seconde.
Tali premesse consentono a Wojtyła di guadagnare una definizione di “relazione”, “amore”, “sessualità”, “affettività”. La riflessione pedagogica conseguente (ma anche quella morale) non risulta perciò “calata dall’alto”, ma scaturisce dall’essenza dell’esperienza umana. Dal “che cos’è” dell’amore deriva il “come guardarlo”, dalla comprensione della sua natura discende la sapienza educativa che lo riguarda. Wojtyła offre in questa luce “linee di senso” pedagogico, che nell’orizzonte “liquido” della nostra epoca possono ancora offrire ragionevoli ipotesi di lavoro in ordine all’ educazione all’amore delle giovani generazioni.

1. L’amore come luogo di comprensione dell’uomo

Un primo elemento ha a che fare con la convinzione, profondamente radicata in Wojtyla, che l’amore costituisca una “struttura antropologica”: che sia cioè componente essenziale del modo in cui ogni uomo è fatto, e perciò costituisca anche il criterio tramite il quale ciascuno può comprendere il senso profondo della propria esistenza, riconoscendovi un’indicazione circa la propria origine e il proprio destino. Convinzione, questa, espressa in termini poetici nel dramma La bottega dell’orefice: «La mia bilancia d’orefice ha questa particolarità, che non pesa il metallo in sé, ma tutto l’essere umano e il suo destino. L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. È il peso di tutto il suo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore».[8] Convinzione ribadita poi dalla prima enciclica del pontificato: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente».[9]
Wojtyła è convinto che la persona umana sia pienamente se stessa solo quando dona se stessa: quando cioè risponde alla logica dell’amore, che costituisce il principio di spiegazione e il nucleo profondo (benché talvolta nascosto) del suo essere. Accanto alla motivazione teologica, approfondita nelle catechesi sull’amore umano (l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio e della reciproca, incessante donazione che costituisce la vita delle tre Persone della Trinità)[10], ve n’è una antropologica. L’analisi dell’esperienza umana mostra che tra le caratteristiche costitutive della persona, che la rendono un unicum rispetto ad ogni altra realtà, rientrano il possesso di sé e il dominio di sé. La persona, inserita in un ordine al quale essa stessa appartiene, è però anche libera in virtù della ragione che le è donata, e della sua possibilità di rapporto con l’Assoluto[11]. Questa sua essenza le conferisce la capacità/potenzialità di donare se stessa: potenzialità che si realizza appunto nell’attuare la donazione di sé[12].
Il nucleo antropologico forte di quest’affermazione, esposto in Persona e atto e nei saggi correlati, è costituito dalla categoria di communio personarum. L’amore, spiega Wojtyła, è nella sua verità sempre una forma di comunione: una dinamica per cui “l’io e il tu persistono nella reciproca affermazione del valore trascendente della persona (lo si può definire anche come la sua dignità) confermando questo con i propri atti”[13]. L’amore, cioè, non ha a che fare con la sola sfera dell’emotività, del sentimento o della passione, che pure vi sono coinvolti. Esso si sostanzia nella cosciente scelta/decisione (che non può prescindere dalla ragione e dalla volontà) con cui le persone coinvolte affermano reciprocamente, attraverso i propri atti, l’una il valore dell’altra: il valore sostanziale ed ontologico che l’altro “io” ha, in quanto è persona.
È in questo senso “tecnico” che Wojtyła parla dell’amore come dimensione eminentemente “personale”, non “individualistica”. Personale, ovvero attinente alla persona tutta intera, che per sua natura è totalità integrata di corporeità, psiche, spirito, ragione e volizione, sentimento e impulso; che è inserita in una realtà fatta di oggettività e di relazioni generative, che la costituiscono mentre ne limitano le indefinite potenzialità; che si scopre, entro questo ordine che le è dato (e in cui si trova consegnata a se stessa), capace anche di auto-dominio, auto-possesso, libertà; e che, per tutti questi motivi, non può essere mai guardata come mezzo in vista di scopi altri. È l’essenza della persona a definire la “regola” dell’amore, perché suggerisce l’unico modo adeguato di accostarla. Si tratta della “norma personalistica”, che Wojtyła ravvisa già in Kant:


«l’uomo […] esiste come scopo in se stesso, e non solo come mezzo perché sia usato da questa o quella volontà; in tutte le sue azioni, dirette sia verso se stesso, sia verso altri esseri razionali, esso dev’essere sempre considerato, al tempo stesso, anche come un fine. […] Gli enti la cui esistenza non deriva dalla nostra volontà, bensì dalla natura, quando siano in realtà prive di ragione, hanno unicamente un valore relativo, di mezzi, e si chiamano perciò “cose”. Per contro, gli esseri razionali sono chiamati “persone”, perché la loro natura li designa, già essa, come fini in sé, cioè come qualcosa che non può venire adoperato esclusivamente come mezzo: e, pertanto, tale natura pone un limite all’arbitrio (ed è oggetto di rispetto)».[14]


Wojtyła mostra la convergenza della pagina kantiana con il “comandamento dell’amore”, unica modalità appropriata di accostare la persona (propria e altrui) in quanto rispondente alla sua verità. La persona non può mai essere guardata come strumento di piacere né essere usata, poiché essa “è un bene al punto che solo l’amore può dettare l’atteggiamento adatto e interamente valido al suo riguardo”[15].

2. Verità della persona e verità dell’amore come condizioni per un’educazione affettiva

Questa riflessione mostra l’inconsistenza di ogni riduzione sentimentale, emotiva, pulsionale: l’amore non è la capricciosa “freccia di Eros”, che si impone al soggetto giustificando a prescindere ogni successiva azione o esternazione. Esso non può fare a meno del rapporto con la verità sulla persona, che integra la corporeità, il sentimento, il desiderio, la volontà e la ragione, e che si gioca nella dialettica con il limite in cui ciascun essere umano è costituito.
Si potrà anche non concordare con Wojtyła, ma bisogna ammettere che la rappresentazione degli affetti come ambito ingovernabile, sottesa a larga parte dell’immaginario contemporaneo, impedisce nei fatti di pensarne l’educabilità. I continui (e tendenzialmente inefficaci) richiami intellettualistici al “rispetto dell’altro”, leitmotiv di dibattiti mediatici e progetti di educazione affettiva nelle scuole, vanno di pari passo con la fatica a porre in questione il significato delle condotte, alla rinuncia ad interrogarsi sul bene e sul male, accontentandosi di fissare il consenso come criterio. Al fondo c’è un’immagine dell’amore come forza invincibile: di qui l’imbarazzo a coartare la spontaneità del sentimento.  E mentre ci si illude di lasciar liberi i ragazzi, attrezzandoli al più con forme di prevenzione o istruzioni per l’uso, li si abbandona alla mera reattività.
Il pensiero di Wojtyła rivela allora la sua vocazione pedagogica ricollocando la dimensione amorosa ed affettiva all’interno della globalità della persona, identificando tale passaggio come conditio sine qua non di ogni possibile educazione affettiva. Educare l’affettività/l’amore non equivale ad arbitraria censura o a imposizione di tabù[16]. Si tratta piuttosto di leggere ogni particolare dentro l’insieme-persona, così da poter comprendere le multiformi componenti dell’esperienza d’amore alla luce del “tutto” in cui confluiscono e si integrano, per viverle nella loro verità.
Questa preoccupazione costituisce la chiave di lettura pedagogica del già citato Amore e responsabilità, in cui l’allora cardinal Wojtyła (impegnato in un’azione educativa e pastorale tra i giovani sotto il giogo del regime comunista) esamina le componenti coinvolte nell’esperienza dell’amore ricercandone il significato profondo. Egli riconosce così, in primo luogo, la presenza dell’impulso come fattore ineliminabile della vita umana e dell’esperienza dell’innamoramento; analogamente, ammette e valorizza la presenza del sentimento e delle emozioni. Tuttavia, richiama alla necessità di inverare queste dimensioni innalzandole al livello della persona, che è essere dotato di ragione, capace di libertà, e che non può esser ridotta ad una delle sue componenti isolatamente considerate (proprio come non può esserlo agli enti/cose che popolano il mondo). Accostarsi alla questione dell’amore assolutizzando gli stati pulsionali o quelli emotivo-sentimentali significa semplicemente ridurre la persona, ridurre se stessi: non vivere all’altezza di ciò che si è. Ciò non significa “far fuori” impulsi ed emozioni, ma il comprenderne il ruolo nell’economia della vita (anche amorosa).
La pulsione, dice Wojtyła, se letta correttamente dice una verità sull’essere umano. Essa è segno della nostra non-autosufficienza, della costitutiva dipendenza ontologica che ci contraddistingue. L’impulso auto-conservativo, ad esempio, ci attesta che la nostra vita è un bene; l’impulso sessuale (come anche la differenza sessuale nella quale siamo costituiti) ci ricorda che non è in nostro potere compierci da soli, e che siamo fatti per la relazione con il differente rispetto a noi. Le pulsioni, insomma, materializzano il nostro bisogno, e l’altro appare attraente in quanto capace di soddisfarlo. In questo senso, la persona altrui risulta “un bene per me”. Questo aspetto fa parte di ogni esperienza d’amore[17]. Fermarsi a questo, tuttavia, significa ridurre l’altro ai “valori del (suo) corpo”, facendone un semplice strumento di gratificazione.
Analoga la lettura wojtyłiana della sfera emotivo-sentimentale, che pone in evidenza l’altro come “bene”. Di nuovo, l’assolutizzazione di questo livello fa sì che l’altra persona sia riconosciuta come valore soltanto per le emozioni che suscita (e che possono divenire l’unico obiettivo perseguito), o nella misura in cui garantisce lo “stare bene”.
La sfida dell’educazione all’amore consiste innanzitutto nel mettere al centro dell’attenzione la persona tutta intera; e nel richiamare la natura dell’amore come volontà del bene dell’altro, a sua volta innestata nel desiderio del vero bene, che è connaturato ad ogni essere umano. Su questa radice può maturare il reciproco dono di sé: la scoperta che l’arricchimento/accrescimento della propria persona passa misteriosamente per la rinuncia alla totale indipendenza, per la donazione cosciente di sé a un altro di cui si desidera il bene vero. Impulso sessuale ed emotività si trovano così inverati nella scelta dell’altro e per l’altro: sullo sfondo di questa decisione ogni manifestazione dell’amore ne diventa davvero espressiva, “dicendo” la radicale affermazione del valore dell’altro in quanto persona (e non in subordine a desideri o scopi “miei”, che lo ridurrebbero a mezzo).
In questo dinamismo si inscrive l’esperienza della scelta/responsabilità: responsabilità nei confronti del proprio amore che è responsabilità nei confronti dell’altra persona, «preoccupazione del suo bene autentico […] e segno infallibile di una certa dilatazione del mio “io” e della mia esistenza, in cui vengono ad aggiungersi un altro “io” e un’altra esistenza, che mi sono vicini come i miei»[18]. È questa responsabilità a diventare la meta di ogni educazione all’amore.
Un ultimo punto pedagogicamente rilevante attiene all’esame dell’atto umano nella sua dimensione transitiva e intransitiva. Ogni atto proietta l’agente fuori da sé, verso il mondo; ma è il “suo” atto, con cui egli si identifica, di cui stabilisce gli scopi per realizzare una potenzialità. Nel momento in cui la persona agisce sul mondo, questo suo atto retroagisce su lei, ne scolpisce i tratti. I nostri atti non sono mai qualcosa che esteriorizziamo una volta per tutte e che, una volta compiuti, ci abbandonano: lasciano inevitabilmente un’eco, una traccia dentro di noi. Diviene possibile spiegare in termini di “consapevolezza mancata” i vissuti dei giovani che popolano le aule di scuola e di università, alle prese con esperienze amorose e/o sessuali totalizzanti e precoci vissute in apparente leggerezza, che li lasciano tuttavia confusi, “spezzati”, lacerati, fino a dover ammettere che quell’azione compiuta e ricevuta con e nel proprio corpo, più o meno coscientemente ma senza averne approfondito il “perché”, ha inciso sul loro “io”.

Conclusione

Proprio perché tocca le corde più profonde e sollecita – se vissuta nella sua pienezza ed integrità – la totalità della persona, l’esperienza dell’amore diventa chiave di lettura della vita e dell’intera realtà. Lo constata, non senza amarezza, la Ragazza delusa in amore dei Profili di Cireneo:

«Questo malessere dei sentimenti si misura con la colonna di mercurio
come si misura il calore dell’aria, o dei corpi –
eppure bisogna in altro modo scoprirne la grandezza…
(ma tu troppo ti senti il perno su cui ruotano le tue vicende).
Se riuscissi a capire che il perno non sei tu,
e Colui che lo è
neppure lui trova amore –
se riuscissi a capirlo.
A che serve il cuore umano?».[19]

Di qui la rilevanza pedagogica dell’assunto su cui l’intera riflessione wojtyłiana si regge: la questione dell’amore e dell’affettività chiede di essere inserita in un più ampio orizzonte di senso, da cui non può essere espunta la domanda sul significato dell’esistere di ciascuno, assieme al lavoro necessario per diventare sempre più ciò che si è. Così, ad esempio, l’Adamo protagonista di uno dei suoi drammi teatrali: «Da tanti anni ormai vivo come un uomo esiliato dal più profondo della mia personalità e nello stesso tempo condannato a indagarla a fondo».[20] La “profondità” qui menzionata costituisce contemporaneamente un contenitore e un “centro” di aggregazione e integrazione dell’identità personale, ed è un Altro cui ci si può rivolgere come a un Tu.[21]
L’educazione affettiva, in sintesi, rientra nella più grande ed affascinante avventura dell’educazione tout court: ben prima che la definizione di strumenti, strategie e progetti, all’adulto è chiesto di inoltrarsi con i giovani sulla via, più impervia ma più vera, del “perché”, senza sottrarsi al lavoro su sé che essa comporta.


[1] Università di Bologna; ISSR “Vitale e Agricola”.

[2] Documento questa affermazione, relativamente al tema del lavoro, in G. Pinelli, Il lavoro come luogo di costruzione dell’identità personale: piste di riflessione pedagogica dalla “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II, in M. Fabbri, P. Malavasi, A. Rosa, I. Vannini (a cura di), Sistemi educativi, Orientamento, Lavoro, Pensa Multimedia, Lecce 2023, 1260-1263.

[3] In realtà nel tempo sono sorte sedi deputate all’approfondimento del pensiero di Wojtyła su affettività/amore, persona e famiglia, come il Pontificio Istituto “Giovanni Paolo II” per Studi su Matrimonio e Famiglia (istituito nel 1982 e sostituito nel 2019 dal Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia); tuttavia, l’impressione è che gli studi prodotti abbiano circolato – al limite, con risultati anche significativi – tra “addetti ai lavori” o in ambienti circoscritti (movimenti ecclesiali, associazioni…), senza penetrare capillarmente le prassi pastorali diffuse o la coscienza condivisa del popolo cristiano.

[4] Cfr. G. Pinelli, “Nulla di più arduo che amarsi”. Eros, affetti, educazione al tempo dei social, Marcianum, Venezia 2021, in particolare il cap. V; G. Pinelli, Educazione sessuale/affettiva in un orizzonte “liquido”. Una ricerca di “senso pedagogico” alla luce dell’antropologia di Karol Wojtyła, «Nuova Secondaria Ricerca», XXXIII, 7/2016, 20-29; G. Pinelli, Fenomenologia dell’amore e pedagogia dell’affettività: la lezione di Amore e responsabilità di Karol Wojtyła, «Nuova Secondaria Ricerca», 2/2017, 11-19.

[5] “L’antropologia [secondo Wojtyła], nel suo punto di partenza, è epistemologicamente indipendente e metodologicamente autonoma rispetto a qualsiasi sistema filosofico definito. Sono le intuizioni ad assumere il ruolo dell’unico criterio esclusivamente affidabile della legittimazione del valore conoscitivo di un dato sistema filosofico, e non è mai vero il contrario. Ciò significa, anche, che sul piano dell’esperienza dell’uomo possono incontrarsi, in linea di principio, tutti gli uomini, indipendentemente dalle opinioni filosofiche e religiose professate”: T. Styczeń, Comprendere l’uomo. La visione antropologica di Karol Wojtyła, Lateran University Press, Roma 2005, 149-150.

[6] K. Wojtyła, Persona e atto, (1969) traduzione (tr.) italiana (it.) Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, 53 (corsivi in originale).

[7] Lo Srodovisko, traducibile in italiano come “ambiente”, era nato come gruppo di studenti universitari e di giovani coppie raccolti attorno a Wojtyła, allora cappellano a San Floriano in Cracovia.

[8] Wojtyła, La bottega dell’orefice, (1960) tr. it. in Id., Tutte le opere letterarie (751-871), Bompiani, Milano 2001, 825.

[9] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis, (1979), in https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_04031979_redemptor-hominis.html, n. 10.

[10] Cfr. Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova-LEV, Roma 1985. Cfr. Id.L’amore umano nel piano divino. La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio nelle catechesi del mercoledì (1979-1984), a cura di G. Marengo, LEV, Roma 2009.

[11] Commentando la creazione dell’essere umano in Genesi, Wojtyła spiega che la solitudine originaria di Adamo davanti a Dio indica che l’uomo è “soggetto costituito come persona, costituito a misura di «partner dell’Assoluto» in quanto deve consapevolmente discernere e scegliere tra il bene e il male, tra la vita e la morte”: Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, cit. p. 48.

[12] Cfr. le Parti Seconda e Quarta di Persona e atto.

[13] Wojtyła, La persona: soggetto e comunità, (1976), tr. it. in Id., Perché l’uomo. Scritti inediti di antropologia e filosofia (59-118), Leonardo, Milano 1995, 97.

[14] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1998, 124

[15] Wojtyła, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, (1960), tr. it. Marietti, Genova 1968, 29.

[16] Wojtyła rifiuta esplicitamente ogni interpretazione rigoristica: Cfr. ivi, 42-44.

[17] Persino dell’amore verso Dio, afferma Wojtyła in passaggi convergenti con pagine coeve di C.S. Lewis, I quattro amori. Affetto, amicizia, eros, carità (1960), tr. it. Jaca Book, Milano 1980.

[18] Wojtyła, Amore e responsabilità, cit., 94.

[19] Id., Profili di Cireneo, (1958), tr. it. in Id., Tutte le opere letterarie (160-179), cit., 169.

[20] Wojtyła, Raggi di paternità (1979), tr. it. in Id., Tutte le opere letterarie (873-953), cit., 887.

[21] “Ciò che è solo una piccola parte o un singolo aspetto, si spiega grazie a un tutto. Un tutto, un luogo, un abitato in cui avvengono tutti gli incontri di tutti gli uomini. Dove Tu non sei, vi è solo gente senza casa”: Wojtyła, Pellegrinaggio ai luoghi santi. In Id., Tutte le opere letterarie (pp. 180-191), cit., p. 189.