Alcune riflessioni sulla formazione della persona in una prospettiva antropologica integrata
Nicole Lolli[1]
Luca Sebastiano Maugeri[2]
Abstract:
In questo contributo convergono due riflessioni e due esperienze diverse per approccio e metodo: una filosofico-pedagogica e un’altra psico-motoria.
Il punto di convergenza consiste nel ricercare le radici storiche e teoriche di quelle teorie dell’educazione contemporanee che hanno in qualche modo realizzato le intuizioni pedagogiche ideali e utopistiche elaborate nel passato. Tra queste intuizioni in particolare ricordiamo il ruolo del corpo, del gioco, dell’immaginazione e del simbolo nella trasmissione del sapere e nella conoscenza di sé. Inoltre, nel contributo si cercherà di esplicitare l’antropologia sottesa a queste idee restituendo infine al lettore un primo abbozzo di un approccio globale all’espressione di sé e alla relazione educativa
1. Lo “spirito dell’utopia” in rapporto alla questione educativa
Nella sua opera del 1917 Spirito dell’utopia Ernst Bloch afferma che «la ragione delle scienze è sempre stata una fantasia che impara grazie agli errori compiuti»,[3] e che progressivamente le scienze, avendo acquisito un proprio campo specifico del sapere, abbiano abbandonato questa sorta di “slancio creativo” in favore di un’idea di mondo ormai compiuta e chiusa in se stessa che altro non riflette che i calcoli delle scienze stesse. Nella stessa opera, l’autore individua la radice di questo slancio in un “puro domandare”, cioè la nostra attività più genuina relativa al conoscere noi stessi e la realtà, connotandola come un qualcosa che non è ancora perché di fatto non è un’attività conscia (non è ancora conoscenza di qualcosa) né tanto meno inconscia (non è ancora esperienza di qualcosa) e così la definisce: «la filosofia utopica dove il pensiero si innalza nella sua luce e l’anima si apre all’illimitato, alle mistiche prospettive, avvolta dalle fiamme che divampano dal futuro, comincia a dischiudere un inconscio di ordine superiore, il fundus intimus, la latenza del mistero originario in sé che urge nel nunc […] l’inconscio creativo del nostro coronamento spirituale».[4]
Come possiamo vedere, qui il concetto di utopia si allontana dall’idea classica di “scenario immaginario irrealizzabile”, per lasciare il posto a un’operazione creativa senza spazio né tempo in attesa di realizzazione storica. Se – come noto – alla base delle riflessioni di Bloch troviamo sicuramente la filosofia marxista a dare una spinta e una direzione a questo “illimitato che urge” e a ciò che poi diverrà il “principio-speranza” (Das Prinzip Hoffnung[5]) per la costruzione di un mondo in continua evoluzione, non possiamo però ignorare come questo utopistico «domandare in sé, uno stupore assolutamente interiore e profondo»[6] di cui parla il pensatore tedesco stia alla base di un’antropologia della conoscenza fondata sul rapporto tra conoscenza di sé e realtà, strutturata fenomenologicamente secondo una logica e un processo di svolgimento che trovano storicamente – come vedremo – delle conferme proprio nella letteratura utopistica a lui precedente, emersa storicamente ben prima del marxismo.
Inoltre, è interessante sottolineare come la scoperta di questo “potenziale utopico” all’interno di ogni essere umano, legato così fortemente allo sviluppo e alla crescita dell’umanità, non possa prescindere dalla crescita e dallo sviluppo del singolo e che diventi così un potenziale pedagogico, per due ragioni: intanto, perché questo processo è letteralmente “e-ducativo”, cioè “tira fuori” dall’individuo contenuti latentemente presenti in lui in forma di “domanda pura” a cui possono essere abbinate risposte non ancora codificate; secondariamente, perché questo processo riguarda l’umanità intera e quindi è basato anche su una relazione tra individui configurandosi così come relazione che in qualche modo “e-duca” all’utopia ma soprattutto attraverso l’Utopia, cioè immaginando nuove risposte di tipo educativo basate sulla dinamica del “non ancora” dell’umanità tutta.
In sintesi, lo spirito dell’utopia è secondo Bloch qualcosa che definisce la dimensione del “non ancora” non solo a livello storico ma anche a livello antropologico: la dimensione dell’impensato che agisce nel fondo dell’animo umano è a suo avviso il nucleo pulsante del nostro essere che attraverso lo slancio utopico genera futuro e speranza sotto la forma di potenziale conoscenza, azione e consapevolezza di ciò che ancora deve trovare storicamente compimento. Come detto sopra, questa dinamica è intrinsecamente educativa, al punto che i grandi scrittori utopistici, da Platone in poi, hanno sempre associato a una civiltà ideale una pedagogia altrettanto ideale e che in molti casi si è rivelata come produttrice di realtà a venire, come nei casi che andremo adesso ad analizzare.
2. “Tutto il resto è imparare giocando”
Un’attività che riflette bene questa particolare attitudine umana a proiettare sul futuro qualcosa che non c’era e che ancora non c’è (e quindi a creare e conoscere allo stesso tempo) è quella ludica, non per nulla legata strettamente all’educazione e alla formazione di giovani e adulti e ben presente nella letteratura utopica come in Utopia e nella Città del sole. Come noto, il calco da cui traggono forza argomentativa e narrativa queste grandi architetture utopiche è senz’altro la Repubblica di Platone, nella quale la tensione tra stato ideale e umanità reale viene mirabilmente condensata in un affresco sociopolitico che ha innescato non solo un dibattito filosofico ancora aperto ma che ha anche acceso una vera e propria “immaginazione creatrice” nei secoli delle utopie rinascimentali.
E proprio all’interno di questa tensione platonica l’educazione occupa un posto centrale nella fisionomia dello stato ideale sin dalla fanciullezza dei suoi futuri cittadini, stato che non deve «educare a forza i fanciulli negli studi, ma educali attraverso il gioco: così saprai discernere ancora meglio le inclinazioni di ognuno»[7], afferma Socrate nel dialogo. Il gioco come mezzo educativo, strettamente legato alla sensibilità e alla corporeità umana, diventa nell’itinerario formativo platonico la modalità di apprendimento fondamentale per fare emergere nei discenti le loro inclinazioni.
È chiaro che il gioco così inteso non ha nulla del divertissement o peggio della banalizzazione, ma al contrario è il mezzo educativo attraverso cui si schiude questo livello antropologico della dimensione del “non ancora”, in cui non è tanto l’intelletto discorsivo a guidare il discente quanto la sua capacità simbolica, cioè letteralmente la capacità di “mettere insieme” due cose differenti per farne una, come da etimologia. I due componenti del simbolo in questione sono quel fundus intimus a cui faceva riferimento Bloch, la spinta utopica che contraddistingue l’individuo nel suo processo di conoscenza creatrice, e l’atto concreto indirizzato verso un risultato atteso ma allo stesso tempo inaspettato, che è poi il senso dell’attività ludica.
Ora, se in Platone l’attività ludica (connessa anche all’attività di addestramento del corpo) doveva accompagnare l’apprendimento dei fanciulli e dei giovani fino al momento in cui avrebbero dovuto imparare le scienze superiori, nella Città del Sole di Tommaso Campanella leggiamo che anche gli adulti «partendosi l’offizi a tutti e le arti e fatiche, non tocca faticar quattro ore il giorno per uno; sì ben tutto il resto è imparare giocando, disputando, leggendo, insegnando, camminando, e sempre con gaudio. E non s’usa gioco che si faccia sedendo, né scacchi, né dadi, né carte o simili, ma ben la palla, pallone, rollo, lotta, tirar palo, dardo, archibugio».[8] Non solo quindi tra i Solari adulti l’orario di lavoro è ridotto e uguale per tutti, ma il resto della giornata è un “imparare giocando” soprattutto attraverso la corporeità e il movimento: e si badi che non si tratta solo di “imparare giochi” per scopi esclusivamente ricreativi o di socializzazione ma di un giocare allo scopo di imparare, inteso come metodo di apprendimento che già da piccoli coltivano: «li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni».[9] Ciò può accadere grazie a un metodo che non sforza la memoria, alquanto avversata tra gli educatori Solari come strumento di apprendimento, ma i sensi e l’immaginazione cioè il cosiddetto “metodo diretto” che consiste nel «pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze»[10] e affiancare dei maestri ai discenti lasciando poi osservare anche autonomamente quanto è dipinto sulle mura dei sei gironi di cui è composta la città.
Si può dunque affermare che nella Città del sole c’è un processo di apprendimento permanente di tipo ludico-simbolico che coinvolge abitanti di tutte le età; questo processo “utopistico” (nel senso classico del termine) è allo stesso tempo “utopico” nel senso blochiano del termine perché riguarda il singolo e la comunità, in quanto è un apprendimento creativo e permanente finalizzato non solo (e forse non tanto) allo svolgimento di una mansione ma al pieno sviluppo dell’umanità.
3. L’immagine e il simbolo
La dinamica simbolica sottesa al gioco è a parere di chi scrive il meccanismo che sblocca questo “immaginario utopico”, cioè questo slancio di produzione della realtà che parla in qualche modo all’umanità e dell’umanità: il “non ancora” assume le forme di una conoscenza e di una pratica consapevole che si sedimenta nella coscienza in modo non necessariamente lucido e razionale, così che possa attivare il soggetto nella produzione di significati tramite una traslazione di senso di ordine immaginifico e simbolico, destinata in un secondo momento a nutrire la parte consapevole e razionale.
Ad esempio, nella Grammatica della fantasia lo scrittore e pedagogista Gianni Rodari ripercorre tutta le genesi dei significati che si formano nell’essere umano attraverso la dimensione fantastica e ludica e che non rappresentano solo la dinamica della fanciullezza ma si appoggiano a strutture dell’umano riconosciute a livello filosofico, pedagogico e psicologico da autori quali Dewey (la capacità simbolico-rappresentativa come integrazione tra mente e corpo[11]) e Bruner (la scoperta come indovinello[12]), che l’autore sapientemente rielabora nella sua visione pedagogica. L’immaginario e la conoscenza sono così strettamente correlati nella loro capacità di produrre sviluppo umano non solo nella canonica età dello sviluppo ma in un’ottica di crescita e sviluppo permanente e di ricaduta sociale dell’apprendimento: “inventare storie”, per riprendere le tematiche del libro di Rodari, si trasformerebbe anche in “produrre storia”, non solo a livello di storytelling ma proprio nella produzione di senso che l’umanità trae dalla conoscenza di sé e dalla metacognizione sulle proprie capacità facendo dialogare in maniera del tutto originale “mano destra e mano sinistra”, come Bruner spiega nella raccolta di saggi Conoscere[13]: la mano sinistra rappresenta l’intuizione, l’escogitazione e la narrazione che offre contenuti “fantastici” alla mano destra del calcolo, della dimostrazione e dell’azione. Questa impostazione pedagogica, che Bruner sviluppò negli anni ‘50 del XX secolo per dare una nuova spinta alla trasmissione del sapere in un’epoca di forti conflitti politici e di contrapposizioni sociali, fu poi rivista in senso più scettico nell’ultima parte della sua vita ma senza mai rinnegare quel fundus intimus che rappresenta lo spirito di quell’utopia pedagogica che egli ha elaborato – esattamente come le altre utopie – per portare lo sguardo oltre l’immediato, per un’esigenza di “altro” che nasceva proprio da quell’immediatezza storica: «Quand’ero un giovane psicologo entusiasta, impaziente di abbracciare il mondo – racconta Bruner –, scrissi un libretto intitolato Conoscere. Saggi per la mano sinistra […]. Intendevo celebrare le ingegnose intuizioni della fantasia sulla condizione umana, che ci avviavano alla comprensione di questa stessa condizione umana in una maniera più equilibrata e “scientifica”. La mano sinistra dell’intuizione offriva dei tesori alla mano destra della ragione».[14] Ciò che Rodari chiama gioiosamente la “Fantastica”, la logica del gioco e della narrazione, incontra qui quella che potremmo definire “Utopica”, la logica di quello che non c’è ma che forse ci sarà.
4. Il corpo simbolico in gioco
La dimensione del gioco è conosciuta da ogni essere umano e può rientrare, per le sue implicazioni nello sviluppo psico-sociale dei bambini, tra i bisogni primari della specie. Il gioco rappresenta il canale preferenziale di comunicazione per il bambino, con esso lui può aprirsi agli altri e investigare il mondo. Sarebbe sbagliato però relegare la sua importanza solo alla prima infanzia. Il gioco nasce col bambino, e assume via via col tempo forme progressive diverse. L’attività ludica è il nutrimento di ogni processo creativo che può attivare, nel corso degli anni, linguaggi artistici come la danza e il teatro.
Possiamo quindi affermare, come teorizzato da Huizinga nel suo Homo Ludens[15] che il gioco, essendo un elemento creatore per natura, è alla base di qualsiasi percorso di pensiero, ricerca e cultura. Affinché il gioco produca nuovi scenari e raggiunga il “non ancora” è indispensabile che abiti un corpo. Non c’è infatti esperienza senza corpo: «Il corpo è il luogo dell’esperienza e della intersoggettività, delle funzioni e delle emozioni, del desiderio e del dolore, della vita e della morte, del limite e dell’eccedenza: della complessità. Pertanto è necessario un pluriverso e non un universo interpretativo».[16] Nella dimensione ludica, il corpo si trasforma in una tela bianca sulla quale si dipingono emozioni, pensieri e relazioni attraverso un linguaggio simbolico ricco di significato. Ogni gesto, ogni movimento, può diventare una metafora eloquente, come già teorizzato da Bettelheim in Un genitore quasi perfetto[17] riprendendo la tesi di Freud descritta nel suo scritto Il poeta e la fantasia. Non a caso si utilizza il linguaggio tipico della poesia per riferirsi al linguaggio simbolico del corpo in gioco.
La poesia, infatti, si configura come un modo particolare di espressione verbale, che riesce ad amalgamare in modo puntuale parole e sintassi per comunicare in modo più intenso le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo. In questa prospettiva, la parola sfugge in parte alla stretta connessione tra significato e significante, una caratteristica tipica della semantica e della razionalità. Essa instaura analogie tra le parole e le sensazioni, interpretando e dando voce ai sentimenti più profondi delle persone. Il linguaggio poetico si avvicina notevolmente, nella sua dinamica, nei suoi obiettivi e nella sua struttura, al linguaggio del corpo. Nel linguaggio del corpo, a un significato possono associarsi o potenzialmente associarsi svariati significati. In conclusione, il corpo rappresenta un elemento chiave nella connessione tra il mondo ludico e l’utopia. La sua espressione creativa, la sua libertà di movimento e la sua capacità simbolica contribuiscono a plasmare un contesto in cui l’utopia non è solo un concetto astratto, ma una realtà vissuta attraverso l’esperienza corporea e ludica.
Conclusioni
Il percorso sin qui esposto ha come conseguenza quello di mostrare che nell’essere umano è presente un’interconnessione tra immaginazione, corpo e conoscenza, legati tra di loro da una “simbolica del non ancora” che struttura la nostra esigenza profonda di significati che alimenta il qui e ora dell’esistenza; significati che questa stessa simbolica – connettendo tra di loro le dimensioni sopracitate – contribuisce a costruire generando così il “futuro”. Il richiamo alla dimensione temporale fa sì che l’orizzonte del “non ancora” sveli il futuro come creazione e non come attesa passiva, come attribuzione di senso in risonanza con la nostra esistenza, legata al “presente” che ci circonda e alle sue problematiche. L’esigenza “utopica” che sostanzia la nostra ricerca di senso non solo produce vere e proprie utopie ma delinea di fatto esperienze ancora non vissute (utopie, per l’appunto) in attesa di un aggancio simbolico per farle diventare il significato di domani: l’essere umano, in un certo senso, è nel futuro prima che questo accada. O meglio: vive il futuro prima che l’umanità lo renda possibile attraverso un percorso di consapevolezza di sé che coinvolge la sua capacità “poietica”, intesa come capacità immaginativa e produttiva allo stesso tempo. Questa pòiesis, astratta e concreta allo stesso tempo, trova nel corpo il mediatore simbolico per eccellenza, che restituisce alla consapevolezza astratta un potenziale di significati “ludici” da mettere in azione attraverso la dimensione del gioco, in cui immaginazione e azione diventano una vera e propria nuova rappresentazione della realtà, una vera e propria “messa in scena” di una possibilità che si realizza e che realizza la persona stessa che la rappresenta.
Dal punto di vista della formazione della persona, possiamo quindi affermare che – stando così le cose – la conoscenza di sé (del “potenziale utopico”) attraverso una mediazione simbolico-rappresentativa è la base di un’educazione realmente “formativa” e di un rapporto educativo centrato sulle potenzialità della persona, intesa non solo come individuo ma come parte dell’umanità. Da un punto di vista prettamente didattico invece, la costruzione mediata dei significati implica un coinvolgimento integrale del discente per apprendere. In tal senso lo “spirito delle utopie” viene “messo in scena” nella comunità educativa contemporanea, allineandosi alla scoperta e alla creazione come canali di apprendimento individuale e crescita comunitaria.
[1] Docente di Scienze Motorie presso l’IIS Venturi di Modena e Psicomotricista.
[2] Docente di Filosofia presso il liceo Wiligelmo di Modena e l’ISSR dell’Emilia.
[3] E. Bloch, Spirito dell’utopia, Rizzoli, Milano 2009, 292-293.
[4] Ivi 295.
[5] Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, Milano 2019.
[6] E. Bloch, Spirito dell’utopia, op.cit., 293.
[7] Platone, Repubblica, libro VII, Mondadori, Milano 2020, 599.
[8] T. Campanella, La città del sole, in La città del sole e altri scritti, Mondadori, Milano 1991, 73.
[9] Ivi 60.
[10] Ivi 59.
[11] «Quando le cose diventano segni ed acquistano la capacità rappresentativa di stare al posto di altre, il gioco si trasforma da mera esuberanza fisica in un’attività che include un fattore mentale», G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1973, 161.
[12] «Una buona parte di quelle che chiamiamo scoperte consiste nel sapere imporre a diverse specie di difficoltà una forma sulla quale sia possibile lavorare. Una piccola ma cruciale parte delle scoperte di altissimo livello consiste nell’invenzione e nello sviluppo di modelli efficaci, nella traduzione di un problema in indovinello», G. Rodari, op.cit., 82.
[13] Cfr. J. S. Bruner, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando, Roma 1990.
[14] Id., La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Bari 2002, 114-115.
[15] Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, 1946.
[16] P. Manuzzi, I corpi e la cura, ETS, Pisa 2009, 29.
[17] Cfr. B. Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano 1987.