Al momento stai visualizzando SULLA SOGLIA DEL MISTERO: LA TEOLOGIA HA BISOGNO DELLA LETTERATURA?

Matteo Pasqualone[1]

Abstract

Alla luce di una recente rivalutazione della disciplina della letteratura da parte della Chiesa, il seguente studio si preoccupa di indagare un possibile contributo che la letteratura può dare al sapere teologico, nella consapevolezza che tale rapporto non risulta sempre chiaro e univoco.
In un primo momento, allora, si analizzeranno alcuni interventi magisteriali in cui emerge un’attenzione particolare che la Chiesa dovrebbe avere verso la letteratura e le arti. In seguito, partendo dall’icona biblica di Gv 20,3-9, verranno evidenziate le reazioni dei personaggi davanti alla tomba vuota, laddove Pietro sarà la personificazione della teologia e Giovanni della letteratura. Infine si metteranno in luce i contributi che l’immaginazione (e quindi la letteratura) può dare alla teologia, educandola a uno sguardo che sappia penetrare meglio il mistero dell’umano.

Introduzione. Problematicità di un rapporto

Quale contributo può portare la letteratura all’indagine teologica? Le opere letterarie si configurano come un vezzo, un divertissement da cui il teologo di professione deve tenersi alla larga o un esodo necessario per gustare appieno la realtà di Dio?
Non sono domande nuove. Infatti si può notare che tutta la storia della Chiesa è attraversata dal rapporto tra letteratura e teologia, il quale, non sempre si è manifestato nelle stesse modalità.[2] In modo particolare, nel XX secolo si assiste a un nuovo approccio, laddove la teologia vede nella letteratura una interlocutrice di pari rango.[3] Tuttavia, nonostante il clima favorevole che sembra albergare tra questi due saperi, sembrano sussistere ancora alcune difficoltà nell’ordine dei ruoli che devono ricoprire. È giusto, ad esempio considerare la letteratura “ancella” della teologia?[4] Oppure: può la teologia strumentalizzare la letteratura, piegandola ai significati che essa vuole esporre e riducendola a “storiella edificante”?[5]
Sarà compito di questo intervento delineare una possibile collaborazione tra i due saperi in gioco, nella consapevolezza che tra letteratura e teologia dovrà rimanere sempre presente un confine che ne impedisca una completa fusione.[6]

1. I motivi di un dialogo

A uno sguardo complessivo sugli ultimi sessant’anni, è possibile scorgere all’interno della Chiesa alcuni interventi volti ad allacciare ponti tra la letteratura e la teologia, nella certezza che tale dialogo possa arricchire entrambi.[7]
Tale evidenza è ben presente nella costituzione dogmatica Gaudium et Spes, che vede nella letteratura e nell’arte importanti alleate per parlare al mondo contemporaneo. Infatti così si esprimono i padri conciliari: «A modo loro, anche la letteratura e le arti sono di grande importanza per la vita della chiesa. Esse si sforzano infatti di conoscere l’indole propria dell’uomo, i suoi problemi e la sua esperienza nello sforzo di conoscere e perfezionare se stesso e il mondo; si preoccupano di scoprire la sua situazione nella storia e nell’universo, di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità, e di prospettare una migliore condizione dell’uomo. Così sono in grado di elevare la vita umana, espressa in molteplici forme, secondo i tempi e i luoghi».[8]
Lo stesso Paolo VI, un anno prima della costituzione dogmatica, ha modo di riflettere su questo rapporto: delineando un percorso dove gli artisti con il progredire della storia si sono allontanati dalla fonte spirituale della Chiesa per andare ad abbeverarsi presso altre sorgenti, auspica un ritorno al dialogo, una rinascita del rapporto di amicizia che tra Chiesa e arte c’è sempre stato.[9]
Nemmeno Benedetto XVI si è sottratto a questa conversazione arricchente e, citando esplicitamente gli interventi dei suoi predecessori, si rivolge agli artisti in un discorso tenuto nella Cappella Sistina,[10] sottolineando come la via pulchritudinis possa essere un percorso estetico-teologico capace di suscitare itinerari di fede. In ultima istanza, anche Francesco risulta particolarmente legato al tema della letteratura e proprio a esso dedica un documento nel quale si auspica un inserimento delle materie letterarie nei percorsi di formazione dei sacerdoti e di tutti i credenti. Questo perché la letteratura “serve” «a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato. Serve, in poche parole, a fare efficacemente esperienza della vita. […] La letteratura diventa allora una palestra dove allenare lo sguardo a cercare ed esplorare la verità delle persone e delle situazioni come mistero, come cariche di un eccesso di senso, che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine».[11]
La teologia, dunque, non può più esimersi dall’interrogare il sapere letterario per poter parlare un linguaggio vicino alla sensibilità contemporanea. Ma non è solo una questione di formule comunicative: Francesco ha ben evidenziato che la letteratura è una palestra per allenare lo sguardo alla realtà che ci circonda, una preparazione immersiva per l’occhio disabituato a un’osservazione autentica del mondo. Una lente capace di ridare fuoco alle esperienze sfocate o date troppo per scontate, abbarbicate dietro formule fredde e lisce come sfere di metallo. Ma, se l’oggetto di questa osservazione è il mistero di Dio, qual è la caratteristica precipua dello sguardo letterario? E di quello teologico? Entrambe sostano sulla soglia del sepolcro e guardano quel lenzuolo abbandonato sulla roccia, mistero di un’esperienza che ancora devono comprendere. Se dunque l’attenzione è rivolta ad un unico oggetto, unico non è il modo di vedere. Proprio come Pietro e Giovanni.

2. Un’icona biblica: sguardi dalla soglia del sepolcro (Gv 20,3-9)

3Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Si chinò, vide (blépei) i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò (theōreĩ) i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide (orào) e credette.  [I grassetti sottolineati sono nostri]

Alle prime schiarite mattutine Pietro e Giovanni si mettono in cammino (anzi corrono!) verso il sepolcro, mossi dall’urgenza di verificare la fondatezza della notizia ricevuta. Ognuno è perso nei propri pensieri. Battono con violenza il piede sul sentiero. Pietro, meditabondo e con gli acciacchi dell’età a rallentarlo, sente il fiato corto bruciargli i polmoni, ma cerca di non fermarsi. Giovanni, animato da un’euforia che non si sa spiegare, sembra fluttuare sulla polvere e sui sassi. Ha il passo talmente veloce che non si accorge di avere lasciato il vecchio amico alle spalle. Una fame di vita sembra divorarlo. Un fuoco che nella sua testa prende forma in un’unica parola: amore. È quello che lo fa essere così veloce.[12] Arrivato però alle soglie del sepolcro, si ferma per guardare dentro. Fa dell’ingresso il suo punto d’osservazione. Non ha bisogno di entrare. Guarda e vede. Il termine greco utilizzato è blépei, cheindica la sensazione visiva in senso stretto, un guardare terreno che prende atto di ciò che attraversa il suo campo visivo, sfociando talvolta nell’area semantico di avvertire, notare, constatare, fare attenzione a qualcosa. È un’osservazione attenta al reale, che non ha paura di posarsi sugli oggetti. È un tenere all’erta vista e intelligenza. Ogni cosa che vede può essere rimando ad altro.[13] Nel frattempo, arriva Pietro, che decide di non sostare insieme a Giovanni, ma di immergersi nello scandalo che sta avvenendo davanti ai suoi occhi. Il giovane forse non si accorge neanche di lui, perché non è in gioco nessun primato in merito all’osservazione del mistero.[14] Non è una gara.
Pietro ha bisogno di entrare. E anche lui vede. Utilizzando il termine greco theōreĩ, è interessante notare come questo verbo possa andare ben oltre il significato base di osservare e arrivare a traslare nell’area semantica del contemplare/esaminare. Il che farebbe presupporre che il verbo voglia indicare un vedere che sfocia in una conoscenza teorica, in un’analisi accurata della situazione.[15] E mentre è intento a provare ed enucleare i suoi teoremi, Giovanni entra con passo leggere e i suoi occhi trasfigurano i teli, donandogli una vista credente. Il verbo ‘ideĩn’, perfetto di orào,[16] è un vedere che diventa conoscenza, “idea” luminosa e carica di promessa. È un vedere oltre lo strato superficiale del dolore, per scorgere una brace viva di risurrezione.
Cosa può dire, allora, questa icona biblica del rapporto tra letteratura e teologia che stiamo cercando di delineare?
Con le dovute cautele, proviamo a immaginare Pietro come la personificazione della teologia; di conseguenza, Giovanni ricoprirà il ruolo della letteratura. Se ci caliamo nella storia, possiamo notare come entrambi si muovano verso un’unica meta: il sepolcro, cioè la soglia del mistero. La teologia/Pietro ha il passo pesante, per certi versi cauto, segno di un’autorità e una saggezza che vogliono vagliare attentamente i segni dei tempi. Inoltre, questa “lentezza” evidenziata dal brano potrebbe raffigurare la fatica che spesso la teologia ufficiale nel camminare di pari passo con i cambiamenti repentini del mondo.
La letteratura/Giovanni, invece, ha il piede svelto e agile, poiché è specchio della contemporaneità che abitiamo e, nel leggere gli accadimenti della realtà, spesso supera in velocità la teologia. Tuttavia, giunta davanti al sepolcro, ha l’umiltà di aspettare la compagna di viaggio e di “sbirciare” dalla soglia la misteriosa assenza del sepolcro. E questo le basta, perché il suo vedere (blépei) è capace di soffermarsi sui particolari, ma, allo stesso tempo, di vedere oltre. È un’intuizione che ha i tratti del profetismo, perché si basa su una valenza simbolica dell’esperienza. Nel frattempo, arriva la teologia che ha il privilegio di immergersi per prima nel mistero, ma il suo vedere (theōreĩ) ha bisogno di tempo per giungere a delle conclusioni certe. La sua, infatti, è una funzione sistematica che richiede la pazienza del pensiero e la solennità della ragione. Ma questo passaggio di sguardo in sguardo è finalizzato a un unico guardare, ossia a una visione che si fa conoscenza acquisita e sfocia nella fede (‘ideĩn’). Quindi la letteratura e la teologia si muovono con metodologie diverse, scelgono un differente punto d’osservazione, ma convergono gli occhi verso l’unico mistero.
Allora in cosa la letteratura può aiutare la teologia (e perché no, viceversa) nel suo compito di annuncio? A esercitare uno sguardo diverso sul mistero dell’uomo, partendo dal presupposto che «la realtà conserva in sé, gelosamente, qualcosa che solo uno sguardo sapiente riesce a cogliere e a far emergere. La teologia ha questa pretesa o, meglio, questa missione. Deve farlo soprattutto “nel secolo della notte cosmica”; nel tempo, cioè, in cui l’abisso del mondo deve essere raggiunto e affrontato da coloro che ne son in grado. È innanzitutto quanto è stato fatto dagli artisti e dai grandi letterati».[17]
In altre parole: la letteratura è la palestra dove la teologia impara ad affinare la facoltà dell’immaginazione creativa,[18] riuscendo così a guardare il mondo con occhi trasfigurati.

3. Fides quaerens imaginationem. Il contributo della letteratura alla teologia

L’immaginazione che porta alla creazione dell’opera letteraria trae le sue origini dalla stessa struttura ontologica dell’uomo, in quanto «è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà».[19] Ancor di più: l’immaginazione è quella facoltà che rispecchia in modo subordinato l’atto creativo di Dio, poiché l’uomo reca in sé le vestigia della sua immagine.[20] Pertanto l’immaginazione, che è tipica dello sguardo della letteratura, può e deve interagire con la teologia, apportando, in questo modo, un contributo indispensabile. Questo risulta vero soprattutto se consideriamo che l’immaginazione «è la porta attraverso cui sfuggiamo ai limiti di ogni modalità riduzionistica di vedere la realtà».[21] Alla luce di ciò, persino un lenzuolo appoggiato sulla pietra del sepolcro è capace di dire più di quello che appare, non perché l’oggetto stesso palesi in modo evidente un messaggio, ma perché diversi sono gli occhi che lo osservano. Infatti «un’immaginazione cristiana riconosce nella normalità dei segni il senso ultimo nonché una promessa del compimento finale»;[22] occorre, cioè, fare la fatica di non fermarsi alla prima reazione davanti all’oggetto, ma affidarsi alla potenza creativa che l’immaginazione umana può compiere per scorgere l’ordito che sottostà alle vicende. È un atto dovuto alla realtà stessa, poiché non può fermarsi tutto all’apparenza.[23] Significa, dunque, immergersi nelle acque dell’esperienza per esplorarne i fondali e scoprire che un anelito di risurrezione avvampa anche laddove ogni cosa sembra sotto il segno della morte.[24] E, nel fare questo, la letteratura è maestra. Solo «allora si comprende che la letteratura può essere intesa come espressione della capacità di guardare il mondo con occhi “freschi”, nuovi, nonostante tutto e al di là del cliché della precarietà della vita».[25]
Sta proprio in questa consapevolezza il contributo che la letteratura (e in senso più ampio l’immaginazione) può dare alla teologia. Rispettando i precipui campi d’indagine, le due discipline si lasciano permeare vicendevolmente, poiché un buon uso della ragione teologica è capace di produrre frutti maturi se irrorati dalla potenza dell’immaginazione. Si potrebbe dire che l’immaginazione stimola il ragionamento; e il ragionamento dà fondamenta solide all’immaginazione. Non a caso, una delle funzioni più importanti dell’immaginazione – tanto utile alla teologia – sta nel «riconciliare gli opposti, completare l’incompiuto, riparare ciò che è rotto, rendere presente l’assente, ordinare il caos, dire l’indicibile, pensare l’impensabile, e perfino, immaginare l’inimmaginabile».[26]
Pertanto la letteratura apre alla teologia le possibilità dell’esperienza,[27] aiutandola a non chiudersi in formule cristallizzate e a riscoprire la bellezza del proprio compito: dire Dio agli uomini. Con rigore e immaginazione.

Conclusioni. Imaginatio quaerens fidem

Proprio perché nel contatto tra le due discipline deve avvenire un reciproco scambio, l’immaginazione cristiana ha bisogno di affondare le proprie creazioni nella fede, sapendo che essa non le tarperà le ali, ma le permetterà di compiere voli ancora più liberi.
Si configurerà così come un’immaginazione al servizio di un mistero che la supera e ogni dogma non sarà più il confine di una gabbia che l’imprigiona, ma il trampolino dal quale sub-creare un mondo trasfigurato da occhi attenti a ogni sfumatura del reale.
In questi termini si esprime con lucidità la grande romanziera cattolica Flannery O’Connor: «Per me un dogma è solo una via d’accesso alla contemplazione ed è strumento di libertà, non di costrizione. Salvaguarda il mistero a tutto vantaggio della mente umana».[28]


[1] Docente IRC nella Scuola Secondaria di primo grado “Dante Arfelli” di Cesenatico. Ha pubblicato articoli su riviste teologiche e le sillogi poetiche Scommessa d’eterno, Il Ponte Vecchio, Cesena 2016, Ogni nascita è dal caos, Fara, Rimini 2020, Le tre margherite, Fara, Rimini 2024, e La voce del sangue Fara, Rimini 2025.

[2] Per una panoramica storico-teologica cfr. M. Ballarini, Teologia e letteratura, Morcelliana, Brescia 2015.

[3] Per citare solo i maestri più rappresentativi del Novecento: cf. Romano Guardini, Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Karl Rahner e Jean-Pierre Jossua.

[4] In questi termini si esprime C. Avenatti de Palumbo, «Letteratura: un’importante mediazione ermeneutica per la teologia», in Concilium 53(2017)5, 42.

[5] Di questo pericolo ci avverte Northrop Frye, sottolineando la natura dinamica e sempre rinnovante della Bibbia: cfr. N. Frye, Il grande codice. Bibbia e letteratura, Vita e Pensiero, Milano 2018, 101-102. Cfr. anche H. U. von Balthasar, Gloria. Stili ecclesiastici, II, Jaca Book, Milano 1971,4, dove si evidenzia il pericolo di piegare il testo letterario al concetto teologico, perdendone così il cuore del messaggio estetico-teologico.

[6] Cfr. F. Brancato, «La schiena di Dio». Escatologia e letteratura, Jaca Book, Milano 2019, 61.

[7] In questo senso si esprime Ioannes Paulus PP. II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, in https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/letters/1999/documents/hf_jp-ii_let_23041999_artists.html [consultato il 4 aprile 2025], laddove, oltre a chiedersi se la Chiesa ha bisogno dell’arte per adempiere la propria missione evangelizzante – risposta che risulta positiva –, si sottolinea la necessità che l’arte potrebbe avere della Chiesa per rispondere alle domande che da sempre indaga (cf. nn. 12-13).

[8] GS 62: EV 1/1528. A questa affermazione fanno eco le parole di René Latourelle: «La letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli. Insomma, un’antropologia che cercasse di costruirsi senza aver posato un lungo sguardo preliminare sul soggetto che studia, cioè l’uomo, rischierebbe di essere insignificante», Letteratura, in R. Latourelle – R. Fischella, Dizionario di Teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 633.

[9] Cfr. Paulus PP. VI, Omelia della Messa degli artisti, 7 maggio 1964, in https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1964/documents/hf_p-vi_hom_19640507_messa-artisti.html [consultato il 4 aprile 2025].

[10] Cfr. Benedictus PP. XVI, Incontro con gli artisti. Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, 21 novembre 20009, in https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2009/november/documents/hf_ben-xvi_spe_20091121_artisti.html [consultato il 7 aprile 2025].

[11] Franciscus, Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, in Papa Francesco (a cura di A. Spadaro), Viva la poesia, Edizioni Ares, Milano 2025, nn. 30.32, 163-164.

[12] Cfr. S. Fausti, Il Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2017, 491.

[13] Cfr. W. Michaelis, «βλέπω», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1966, VIII, 964-968.

[14] Cfr. R. E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 2010, 1262; X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, 1161.

[15] Cfr. W. Michaelis, «θεωρέω», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, op. cit., VIII, 971-974. Per correttezza metodologica, l’Autore segnala che l’interpretazione dei verbi che svolge in questo contributo è frutto di una riflessione personale che, solo in parte, trova sostegno negli studi esegetici. In modo particolare, risulta utile segnalare che i verbi rientranti nell’area semantica del “vedere” in Gv sono tra loro interscambiabili, senza evidenziare marcate differenze di traduzione o senso. Nel brano in questione i due verbi utilizzati – insieme a orao del v. 8 – non si allontano molto nel senso, tanto da poterli vedere come sinonimi (cf. R. E. Brown, Giovanni, op. cit., 1235). In altri casi, sebbene la traduzione risulti sinonimica, c’è chi vede in questa differenziazione una sorta di climax conoscitivo che sfocia nella fede (cfr. E. Ghezzi, Come abbiamo ascoltato Giovanni. Studio esegetico-pastorale sul quarto Vangelo, Edizioni Digigraf, Bologna 2006, 1242).

[16] Cfr. W. Michaelis, «ὁράω/εἶδον», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, op. cit., VIII, 956-964.

[17] F. Brancato, «La schiena di Dio», op. cit., 15.

[18] L’«immaginazione creativa è concepita da Ricœur sulla base di un’antropologia della sproporzione tra la finitudine e l’infinito. […] Nella rottura provocata dal desiderio di infinito, l’immaginazione realizza la sua azione innovatrice. È questo il punto d’incontro della teologia con la letteratura», C. Avenatti de Palumbo, «Letteratura: un’importante mediazione ermeneutica per la teologia», op. cit., 44.

[19] J. R. R. Tolkien, Albero e foglia, Rusconi, Milano 1976, 69.

[20] Ivi, 70.

[21] T. Radcliffe, Accendere l’immaginazione. Essere vivi in Dio, EMI, Verona 2021, 20.

[22] Ivi, 29.

[23] «Realtà e fantasia non sono opposte e antitetiche. La fantasia è un modo specifico di fare esperienza della realtà, una visione intensiva della realtà. Opporre realtà e fantasia significa spaccare in due l’esperienza che l’uomo fa del mondo, mettere le basi per mantenere una cesura radicale tra spirituale e materiale», A. Spadaro, L’altro fuoco. L’esperienza della letteratura II, Jaca Book, Milano 2009, 20.

[24] «Se lo scrittore usa gli occhi restando saldamente ancorato alla sua Fede, sarà tenuto a usarli con onestà, e il suo senso del mistero e l’accettazione di quest’ultimo ne risulteranno accresciuti. Guardare le cose peggiori non sarà per lui nient’altro che un atto di fede in Dio», F. O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, minimum fax, Roma 2002, 96.

[25]  A. Spadaro, L’altro fuoco, op. cit., 23.

[26] N. Steeves, Grazie all’immaginazione. Integrare l’immaginazione in teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2018, 13. «Lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli una povertà che è fonte di straordinaria ricchezza. Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia», Franciscus, Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, in Papa Francesco (a cura di A. Spadaro), Viva la poesia, op. cit., n. 40, 169.

[27] «La letteratura “serve” fondamentalmente a dire la nostra presenta nel mondo e, come strumento ottico, a interpretarla, a cogliere ciò che va oltre la mera “letteralità” del vissuto, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali; ma soprattutto “possibilità”, come scrive Emily Dickinson in un suo verso: I dwell in possibility, “abito nella possibilità”», A. Spadaro, Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano 2008, 23.

[28] F. O’Connor, Sola a presidiare la fortezza. Lettere, Einaudi, Torino 2001, lettera ad “A.”, 2 agosto 1955, 28.