Fabio Gambetti[1]
Abstract
L’ articolo affronta un tema costantemente presente e discusso in diversi periodi della storia, quello della veridicità della teologia e della scienza. La questione della veridicità sembra trasversale alle discipline per questo l’autore si chiede se e in che termini la teologia sia una scienza, ma anche che cosa bisogna intendere per scienza e quale sia il grado di veridicità che essa possiede.
Introduzione
Le tre celebri domande di Kant, «che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?»,[2] connotano forse più di altre l’epoca moderna, quando il progressivo dividersi dei saperi, ciascuno con un proprio dibattito interno sui principi euristici che lo rendono certo, ha portato alla separazione delle conoscenze a favore della loro specializzazione. La questione della veridicità sembra trasversale alle discipline: non solo ci si è chiesti – e ci si chiede – se e in che termini la teologia sia una scienza, ma anche che cosa intendere per scienza, quale sia il grado di veridicità che essa possiede. La prima è un sapere che, per sua natura, riflette sulla relazione personale di Dio col suo popolo e con i singoli, connotata dall’evidenza dell’esperienza individuale che, peraltro, non è necessariamente empirica; la seconda, un novero di saperi che vorrebbero essere universali e necessari, ripetibili e verificabili empiricamente, coerenti sul piano della logica formale. Gli stessi termini ‘teologia’ e ‘scienza’ hanno subito nei secoli importanti modifiche semantiche. Vediamone alcune salienti.
1. Modifiche semantiche
Il termine ‘teologia’ è nato con la filosofia greca e indicava la riflessione ‘laica’ sulle realtà divine. I primi autori cristiani indicavano la riflessione su Dio con sacra pagina, sacra doctrina, lectio, perché con ‘teologia’ s’intendeva abitualmente la filosofia prima di Aristotele, la metafisica, e non la riflessione sistematica sulla rivelazione. Un’evoluzione si ebbe con autori quali Pietro Lombardo che, nel XII secolo, pensò di raccogliere i commenti (glossae), che venivano scritti a margine o tra le righe delle Scritture, e di organizzarli per argomenti secondo un ordine quadripartito: Dio, la sua natura e i suoi attributi; la creazione e il peccato originale; l’incarnazione del Verbo e la grazia; i sacramenti.
Nacquero così le sententiae e quelle del Lombardo s’imposero nel dibattito culturale tanto che, per diventare professori universitari (magistri),occorreva scrivere un commentarium in sententiarum libris Petri Lombardi. C’erano tuttavia molteplici modi d’intendere la natura della teologia: vi era chi, come Enrico di Gand, considerava l’essere teologo una sorta di vocazione non sacramentale, sostenuta da un lumen medium, o chi, come Goffredo di Fontain, pensava che tale disciplina fosse imperfecta e dunque andasse considerata sapienza ma non scienza.
Nel dibattito non mancavano gli esponenti dell’averroismo latino, quali Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, che affermavano l’insondabilità delle cause ultime e del volere divino, e giudicavano la teologia una riflessione laica, in linea col modello aristotelico. Gli stessi dottori cattolici, pur ritenendo la teologia una scienza nell’accezione di pensiero certo, esprimevano posizioni differenti: per Tommaso era quasi subalternata, in quanto per la propria indagine utilizzava i criteri di altre discipline e aveva come fine il vero; per il francescano Bonaventura l’utilizzo dei principi aristotelici era limitante e lo scopo era «ut boni fiamus», mentre per il suo confratello di poco più giovane, Giovanni Duns Scoto, essa era una scienza ‘pratica’, diremmo oggi morale.[3]
La parola teologia solo a fine ‘200 era divenuta sinonimo di riflessione organica sulla Scrittura e sui contenuti della fede, riflessione che traeva la certezza dalla rivelazione, mentre la validità del suo metodo era assicurata dall’argomentazione sic et non. Tale impostazione, seppure con varianti, è rimasta il riferimento per secoli, tanto che nell’Enciclica Aeterni Patris (1879) Leone XIII indica san Tommaso quale dottore centrale della teologia. Sarà il Concilio Vaticano II che, pur non smentendone l’importanza, nell’Optatam totius e nella Gravissimium educationis aprirà di fatto a un possibile differente approccio alla teologia.
I pontefici che da allora si sono succeduti non hanno mancato di sottolineare l’importanza del pensiero tomista e del suo modo di fare teologia che, nei secoli, si era imposto nella Chiesa; tuttavia hanno sottolineato anche l’importanza del moderno approccio al sapere. Emblematico il motu proprio di papa Francesco Ad theologiam promovendam (2023) nel quale si legge «non ci si può limitare a riproporre astrattamente formule e schemi del passato».
2. La chiamata a una svolta
La teologia, prosegue il pontefice, è chiamata a un «ripensamento epistemologico e metodologico», chiamata a «una svolta». In che cosa consiste tale radicale cambiamento? Nell’essere una «teologia fondamentalmente contestuale», nell’entrare nella «tradizione religiosa di un popolo». Non dunque la scientificità, la theologia perennis bensì in via, mantenendo però «come archetipo l’Incarnazione del Logos eterno». La teologia dovrà pertanto avere una dimensione relazionale con gli altri saperi, «avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi».
Tutt’altro che lineare appare anche il percorso compiuto dalla scienza per staccarsi dalla filosofia e per conseguire un proprio metodo attendibile. La tripartizione aristotelica delle scienze in teoretiche, pratiche e poietiche, la definizione di scienza come scire per causas (materiale, formale, efficiente e finale), era ancora il modello cardine all’epoca di Galilei, che definiva ‘quelli della piccionaia’ i seguaci dello Stagirita.[4] L’idea galileiana di distinguere tra ‘come funziona il mondo’ e ‘come si va in cielo’, ovvero tra scienza e teologia, nel ‘900 è però stata messa in discussione da autori quali Husserl: «È appunto questa l’essenza propria della scienza naturale, l’a-priori del suo modo d’essere: quello di essere un’ipotesi e una verificazione infinite».[5] Celebre l’opera in cui il fondatore della fenomenologia mette in luce la crisi in cui versa la scienza novecentesca, non perché non abbia raggiunto importanti risultati, ma perché ha smarrito il suo «significato per la vita»: «Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso».[6]
Il Positivismo che, a metà Ottocento, aveva coltivato l’idea di giungere a certezze indubitabili e aveva affermato con Comte che l’ignoto e il mistero null’altro sarebbero se non ciò che ancora non è stato scoperto o spiegato[7], ha perso progressivamente credibilità. L’idea che una legge scientifica, espressa in linguaggio matematico, sia universale e necessaria è stata criticata anche dagli studi, ad esempio, sulle geometrie non euclidee.
La teoria della falsificabilità di Popper, sostiene poi che le leggi scientifiche costituiscono una rappresentazione del mondo, ma non coincidono con l’intera realtà. In questo senso egli osserva: «Le nostre falsificazioni indicano i punti in cui abbiamo, per così dire, toccato la realtà. E la nostra ultima e migliore teoria è sempre un tentativo di incorporare tutte le falsificazioni che siano mai state trovate in questo campo, spiegandole nel modo più semplice».[8]
La realtà eccede costantemente le costruzioni razionali e gli strumenti più sofisticati con cui tentiamo di comprenderla. È dunque più appropriato, parlando di scienza, riferirsi non a una verità definitiva, ma a ipotesi che si dimostrano al momento le più plausibili: «Tutta la conoscenza scientifica è ipotetica o congetturale. […] La scienza – scrive ancora Popper – comincia con teorie, con pregiudizi, superstizioni, miti: o, piuttosto, comincia con la sfida e l’abbattimento di un mito: comincia cioè quando alcune delle nostre aspettazioni sono state disilluse».[9]
Altri filosofi della scienza moderna, come Kuhn e Feyerabend, hanno messo in discussione l’idea di una metodologia scientifica unica, suggerendo che la scienza stessa è un’impresa umana influenzata da paradigmi culturali e storici. Tuttavia, anche in questa accezione la teologia incontra difficoltà a essere considerata una scienza, perché scevra degli elementi chiave che caratterizzano l’indagine scientifica.
Taluni, come Plantinga, hanno proposto che la fede religiosa e la teologia possano avere una loro razionalità e coerenza interna, pur senza rispettare i criteri della scienza empirica. Secondo Plantinga la credenza in Dio può essere razionalmente giustificata anche in assenza di prove empiriche. Egli sostiene che alcune credenze, come quella in Dio, possano essere «credenze di base» (basic beliefs), cioè fondamentali e non dedotte da altre, ma comunque razionali. In questo senso, credere in Dio non è diverso dal credere che il mondo esterno esista o che il passato non sia un’illusione: sono convinzioni che accettiamo razionalmente senza la necessità di dimostrazioni.[10]
3. La questione della veridicità
Se ai primordi per la teologia essere scientia subalternata significava attingere i criteri da altre scienze per raggiungere la certezza del vero, oggi l’essere considerata soprattutto l’espressione di una dinamica relazionale pone nuove questioni. Se infatti la scienza chiede la falsificabilità delle asserzioni, la ripetibilità delle esperienze, come può la teologia essere “scientifica”?
D’altronde il relegare la teologia al solo campo della ricerca di un significato, estraneo alla questione della scientificità, non le renderebbe merito, perché la ridurrebbe a una soggettiva narrazione scevra di qualsivoglia possibilità di dialogo e di confronto, legata all’arbitrio e/o all’emotività individuale, lontana dalla questione della veridicità dei suoi contenuti, una sorta di platonica pístis quando non eikasía, ultimo gradino della doxa.[11]
L’ambito della scientificità a cui la teologia può riferirsi è quello delle scienze umane e letterarie, la fenomenologia, dove per ‘vero’ s’intende aderente alla Parola di Dio «che precede le Scritture in quanto evento storico in cui Dio parla e si rivela»,[12] all’evento dell’Incarnazione e Resurrezione, a una storia universale nel senso di offerta a ogni uomo, non in senso algebrico. La Parola è infatti per sua natura evento dialogico, come ha più volte ricordato Benedetto XVI.[13] E se per autori quali Buber e Ricoeur[14] l’uomo stesso è una narrazione, la sistematicità alla quale la teologia è chiamata non può essere quella matematica, bensì quella della coerenza storica dell’evento narrato e dell’orizzonte semantico proposto. In questa direzione si è mosso anche Rahner, che considera l’uomo come essere capace di relazione con l’altro e pertanto afferma che la domanda centrale non è più quale sia la causa prima del mondo, bensì il suo darsi all’uomo.
Nella relazione col mondo l’uomo scopre che la causa che fa essere l’universo è la medesima che trova in se stesso, e ascoltare Dio significa ascoltare il mondo nel quale l’uomo vive.[15]
4. L’approccio antropologico
Nella teologia cattolica del ‘900 è dunque diventato centrale l’approccio antropologico, più che quello ‘scientifico’. Il Cristianesimo annuncia che, in Gesù, Dio si fa fratello dell’uomo, compagno di viaggio, entra in relazione diretta con ciascuno. La narrazione esprime una relazione ed essa, come ha spiegato Bruner, ha una sua veridicità e un suo statuto. Al pari delle scienze positive che, di fronte al dato che non rientra nella teoria, hanno toccato la realtà e devono quindi ampliare la legge precedente[16], così «la narrazione è giustificata o autorizzata quando la sequenza di eventi che racconta rappresenta una violazione della norma, narra cioè qualcosa di inatteso o qualcosa di cui l’ascoltatore ha motivo di dubitare».[17]
Ogni storia, prosegue l’autore, è costituita dalla serie degli eventi che la formano, ma anche dalla valutazione di quanto viene raccontato. Ogni storia ha poi un suo circolo ermeneutico di senso, che fa sì che essa sia interpretata e non spiegata: «Non si può spiegare una storia; tutto quello che si può fare è darne diverse interpretazioni».[18]
La Bibbia è la narrazione della storia costruita da Dio col suo popolo e, in Gesù, con ciascun uomo. Come tale, essa può essere interpretata e non spiegata. Qui ci pare stia la ‘scientificità’ della teologia e, a seguire, delle teologie: nella capacità di leggere l’Alleanza tra Dio e l’uomo, a partire dalle categorie dell’uomo concreto, vivente in un tempo, in uno spazio, in una Weltanshauung, la stessa in cui la scienza ha le proprie radici.
Questa sembra la strada indicata dal motu proprio di papa Francesco, dove la sistematicità è assicurata dall’archetipo dell’Incarnazione. La ‘scientificità’ della teologia, al pari delle altre scienze che si occupano delle narrazioni umane, sta in questa capacità: «Così diciamo che le teorie scientifiche o le dimostrazioni logiche vengono giudicate per mezzo di verifiche o di esperimenti – o, più precisamente, in funzione della loro verificabilità e della possibilità di sottoporle a test – mentre le storie vengono giudicate in base alla loro verosimiglianza o al loro realismo».[19]
Ogni storia non è un atto universale e necessario, bensì il prodotto di un narratore che ha un proprio punto di vista. Questo, a parere di taluni, renderebbe le scienze umane e la teologia arbitrarie. Ma anche le scienze positive costruiscono il loro sapere a partire dal punto di vista dell’osservatore.[20]
L’idea ereditata dalla cultura greca di un mondo razionale, comprensibile a partire da spiegazioni logiche o scientifiche, deve fare i conti con la fisica quantistica e le sue implicazioni. Quando si cerca di comprendere il mondo, la questione non è infatti se esso sia coerente, bensì se lo sia la teoria esplicativa che vorrebbe spiegarlo.[21]
L’universo stesso, non solo l’uomo, a quanto sostiene il fisico Rovelli, ha una struttura relazionale e ogni oggetto fisico si manifesta non a noi, a un osservatore, bensì a un altro oggetto fisico: «Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non agli oggetti isolati».[22]
L’entanglement, ovvero l’idea che «le proprietà delle cose sono relative ad altre cose e si realizzano nelle interazioni»,[23] potrà essere valido anche per coloro che si dedicano a studiare la relazione che in Gesù, Parola vivente nella Chiesa, Dio ha costruito e ancora costruisce con l’uomo.[24]
[1] Docente dell’Istituto di Scienze Religiose “Vitale e Agricola” e della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, Bologna.
[2] Cfr. I. Kant, Critica della Ragion Pura, Cap. II, Sez. I, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1991, 490-491.
[3] Per una sintesi si può vedere F. Gambetti, La teologia è una scienza? Il contributo di Riccardo di Mediavilla al dibattito del XIII secolo, cap. II, EMP, Padova 2024.
[4] G. Galilei, Lettera a Paolo Sarpi, datata 16 ottobre 1604, in Le Opere di Galileo Galilei, ed. Antonio Favaro, vol. X, G. Barbera, Firenze 1901, 98: «… e nondimeno non mancano alcuni, come sapete, che stando in su nella loro piccionaia, e non degnandosi mirar né il cielo né le stelle, vogliono nondimeno giudicare delle cose celesti».
[5] E. Husserl, La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano 19652, 171.
[6] Ivi, 35 sg. Anche M. Heidegger, Sull’essenza della Verità, La Scuola, Brescia 19854, 37, concorda sulla crisi di significato della scienza nell’epoca contemporanea: «Nonostante il progresso verso nuove misure e nuovi scopi, l’uomo si inganna sull’autentica essenza delle sue misure. Misura male anche se stesso, e questo soprattutto quando assume esclusivamente la propria soggettività come misura per tutte le cose. Lo smisurato oblio dell’umanità insiste nell’assicurare sé stesso con ciò che, di volta in volta, nella vita corrente gli è accessibile».
[7] Cf. A. Comte, Cours de philosophie positive, I, Leçon I, Bachelier, Paris 1830, 10: «Dans l’état positif, l’esprit humain, reconnaissant l’impossibilité d’obtenir des notions absolues, renonce à chercher l’origine et la destination de l’univers, et à connaître les causes intimes des phénomènes, pour s’attacher uniquement à découvrir, par l’emploi bien combiné du raisonnement et de l’observation, leurs lois effectives, c’est-à-dire leurs relations invariables de succession et de similitude. La recherche de ces lois devient l’objet constant et unique de ses efforts, comme étant le seul accessible à notre intelligence. Ces lois, une fois bien constatées, peuvent être tenues pour certaines». Cf. tr.it. A. Comte, Corso di filosofia positiva, trad. di Enrico Bellone, UTET, Torino 1971, 28.
[8] K. Popper, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 19796, 42.
[9] Ivi, 136 e 138.
[10] A. Plantinga, Warranted Christian Belief, Oxford University Press, New York 2000, 179: «Belief in God is properly basic; that is, it is entirely rational to accept belief in God without arguments or evidence».
[11] Cfr. Platone, Repubblica, VI libro, 509d–511e.
[12] G. Sgubbi, Il Logos è amore, Itaca, Castel Bolognese 2024, 130.
[13] Cfr. Ivi, p. 120 ss.
[14] Cfr. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014; P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2016.
[15] Cfr. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Roma 1984.
[16] Cfr. Popper, Scienza e filosofia, cit., 42: «Le nostre falsificazioni indicano così i punti in cui abbiamo per così dire, toccato la realtà. E la nostra ultima e migliore teoria è sempre un tentativo di incorporare tutte le falsificazioni che siano mai state trovate in questo campo, spiegandole nel modo più semplice: e ciò significa nel modo più controllabile».
[17] J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1998,135.
[18] Ivi,
[19] Ivi, 135 sg.
[20] Ivi, 136 sg.: «Ma il discorso è altrettanto valido per la scienza, anche se il suo linguaggio, ammantato della retorica dell’oggettività, fa di tutto per nascondere questo aspetto, tranne che quando ha a che fare con i “fondamenti” del suo campo. I famosi “cambiamenti di paradigma” che hanno luogo nel corso delle rivoluzioni scientifiche questa finzione, perché tradiscono il fatto che i cosiddetti dati della scienza sono delle osservazioni costruite a partire da un punto di vista. La luce non è corpuscolare né simile a un’onda; le onde e i corpuscoli sono nella teoria, nella mente di chi la crea e di chi la difende. Le osservazioni che vengono ideate si propongono di determinare fino a che punto la natura di adatti a questi brani di “scienza fantastica”».
[21] Cf., C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020, 40 sg.: «La teoria dei quanti, tanto nella versione di Heisenberg che nella versione di Schrödinger, predice probabilità, non certezze […] Einstein amava Spinoza per il quale “Dio” è sinonimo di “Natura”. Quindi “Davvero Dio gioca a dadi?” significa letteralmente “Davvero le leggi della Natura non sono deterministiche?”. A cent’anni di distanza dalle polemiche fra Heisenberg e Schrödinger, su questa domanda, come vedremo, si discute ancora».
[22] Ivi, p. 84.
[23] Ivi, p. 99.
[24] Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12: «Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana, l’interprete della Sacra Scrittura, per capir bene ciò che Egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione, che cosa gli agiografi abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole […] per ricavare il senso die sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tento debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede». Cf. G. Sgubbi, Il Logos è amore, op.cit.,126: «Il carattere dinamico e relazionale della Parola di Dio fa emergere nella sua coerenza anche l’impossibilità di una Scrittura da “sola” di fronte alla Chiesa (posizione rivendicata da Oscar Cullmann): essendo la Scrittura da sempre insieme alla Chiesa, nella quale si è formata, un sola Scriptura in senso protestante avrebbe come conseguenza di consegnare la stessa Bibbia alle competenze della scienza biblica, trascurando l’accoglienza credente in cui si è formata e nella quale viene tramandata».
