Al momento stai visualizzando COME TI CHIAMI? Riflessioni didattiche sul “nome”

Giordana Cavicchi[1]

Abstract

La quotidianità spesso è fatta di cose talmente consuete da non apparire interessanti o degne di approfondimento ma piuttosto banali e scontate. Una di queste è il nome delle cose e delle persone. Questo breve contributo vuole suggerire solo alcune piste didattiche, molto semplici, sul tema del “nome”, che possono essere percorse a partire da bambini della scuola dell’infanzia fino a studenti che si avvicinano alla maturità.

Introduzione

Il nome è un sostantivo che indica una realtà, concreta o astratta, reale o immaginaria, di cui si può parlare. Permette di identificare, di conoscere, di condividere, di comunicare.
Quando vogliamo farci conoscere o vogliamo conoscere una persona usiamo il “nome proprio”: un distintivo che ci rende unici. Il nome proprio ha spesso origini molto antiche e può avere un significato legato al senso della vita della persona che lo ha portato o che lo porta. A volte viene scelto solo perché piace, ma spesso la scelta è influenzata dal desiderio di trasmettere un nome portato da una persona stimata, amata o ammirata, oppure proprio per il suo significato speciale. Anche i suoni dei nomi possono evocare suggestioni particolari: alcuni appaiono severi, altri allegri, altri graziosi, o ricercati.
Molte persone oltre che con il nome vengono chiamate con vari soprannomi: vezzeggiativi e diminutivi, nomignoli vari usati in famiglia ma anche dai compagni di scuola o nel gruppo degli amici. A volte sono soprannomi diversi per diversi ambienti; termini che esprimono sentimenti da parte di chi li usa, o appellativi che possono anche non essere graditi, che esprimo un giudizio non positivo, che possono anche ferire la persona.
Ci sono poi persone che usano pseudonimi per le loro attività: artisti, cantanti, sportivi, per motivi commerciali, per non rivelare la propria identità o anche come buon auspicio.
Il nome con cui ci chiamiamo e chiamiamo le persone che conosciamo è talmente abituale da apparire ovvio o scontato. Riflettere sull’importanza del nome, sull’uso che facciamo del nostro nome e di quello degli altri e aiutare i ragazzi a farlo è un modo per abituarli a non dare nulla per acquisito, a prestare attenzione anche alle cose apparentemente più piccole o sicure.
A partire dal “nome” è possibile costruire percorsi didattici, anche in verticale, che a seconda dell’età dei ragazzi, del grado e del tipo di scuola possono contribuire alla maturazione di competenze linguistiche, religiose, comunicative (per esempio essere in grado di cogliere l’efficacia comunicativa di un nome) esistenziali, utili per la vita.

Conosci il significato del tuo nome?

Sai perché i tuoi genitori lo hanno scelto?

Come si chiama il tuo compagno di banco?

1. L’appello

Questa piccola, prima ricerca può portare alla scoperta di tradizioni e usanze molto diverse da un punto di vista culturale, religioso e sociale soprattutto in contesti multietnici e multiculturali come sono le classi scolastiche oggi.
“Come ti chiami?” La domanda è mal posta, sarebbe più corretto dire: che nome hai? Infatti noi non abbiamo normalmente l’abitudine di chiamarci, di solito chiamiamo gli altri o siamo chiamati da altri.
«Ciclope, mi chiedi il mio nome glorioso? Ebbene, te lo dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale. Nessuno è il mio nome. Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti gli altri compagni».[2]
Il nome che portiamo non lo abbiamo scelto noi, ci viene dato alla nascita mentre il cognome lo ereditiamo: questo avviene normalmente nella nostra cultura.
«La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello».[3]
L’appello della vita è lo spazio e il tempo dentro al quale ciascuno di noi costruisce, giorno per giorno, la propria storia, è dunque ciò che è davvero nelle nostre mani.
Al di fuori della metafora l’appello scolastico è un momento importante e il docente che si appresta a farlo per la prima volta entrando in una nuova classe lo sa bene perciò pone molta cura a quell’approccio che, per l’insegnante, è solo un primo sguardo d’insieme dei ragazzi ma per loro, per la classe, è il biglietto da visita con cui vengono a conoscenza del nuovo docente. Il modo con cui vengono scanditi i nomi, il tempo dedicato a ciascuno di essi, la ricerca del volto e dello sguardo che ci sono dietro a quel nome possono far dire al ragazzo: «esisto, sono importante, avrà cura anche di me». Questa consapevolezza deve aiutare l’insegnante a compiere questo primo passo verso i ragazzi per provare a instaurare da subito quel clima di empatia, di reciproca stima e fiducia che è premessa necessaria all’apprendimento e condizione indispensabile per un percorso di insegnamento efficace.

2. Dare il nome

Dare il nome ha un significato alto e complesso, in un certo senso vuol dire anche assumere la paternità e quindi la responsabilità della crescita e del bene di ciò a cui si dà il nome. Nel racconto di Genesi Dio porta a termine la creazione dando un nome a tutte le cose: cielo, terra, luce, tenebra, giorno, notte… ma quando porta a termine la creazione degli animali li conduce ad Adamo perché sia lui a dare il nome: «… in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.» (Gen 2,19). Anche il nome che Dio sceglie per il primo uomo non è casuale: adam in ebraico significa uomo, ed ha la medesima radice di adamah che significa terra, dunque uomo e terra derivano dalla stessa radice: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen2, 7).
Quale deve essere allora secondo la Bibbia il rapporto dell’uomo con la natura, con il resto della creazione? Quali conseguenze comporta sul piano etico? La lettera ai Romani al capitolo 8 offre qualche ulteriore chiave di lettura e di approfondimento. Crescendo i ragazzi possono diventare sempre più consapevoli non solo di condividere la condizione di essere creature, non solo di avere la responsabilità di “coltivare e custodire” (Cfr. Gen2,15) tutta la creazione ma anche e soprattutto di attendere, assieme ad essa, una salvezza che solo ci può essere data come dono.
Ma il racconto di Genesi dice anche un’altra cosa: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta”» (Gen 2,21-23). Adamo questa volta non dà il nome alla donna ma riconosce il nome con cui sarà chiamata. Nella lingua ebraica i termini usati sono: «ish – uomo e «ishshà» – donna che purtroppo nella traduzione italiana perdono la loro radice comune. Noi non possiamo dire: “uoma” perché da “uomo” è stata tolta ma è così in tutte le lingue? E quale significato potrà avere questo nome riconosciuto da Adamo all’aiuto che gli corrisponde? (Cfr. Gen2,20)
Il nome è così importante che a volte si sente il bisogno o si avverte la necessità di cambiarlo. Presso molti ordini religiosi, lo fanno i monaci e le monache quando prendono i voti definitivi. Lo fa il Papa, quando viene eletto e la scelta non è mai casuale ma risponde ad un preciso progetto che il cardinale eletto intende portare avanti. Potrebbe essere interessante scoprire perché il cardinale Robert Francis Prevost ha scelto di chiamarsi Papa Leone XIV. Il cambiamento del nome spesso manifesta il desiderio di un cambiamento radicale della vita: da quel momento in poi, la persona di prima è «morta», ed è nata una nuova persona. Anche nella Bibbia, Dio cambia nome ad alcuni personaggi, che avranno un ruolo fondamentale nel progetto di salvezza da Lui preparato. Dio dà loro un nome che esprime quello che ora sono diventati e che si realizzerà nei secoli futuri, a partire dal loro sì, dalla loro disponibilità ad accogliere la chiamata di Dio. Non si tratta, infatti, di un destino passivo, imposto dall’alto, ma di una libera accettazione del progetto di Dio che li coinvolge. Accade, tra gli altri, ad Abramo che apre la strada alla religione rivelata e monoteista e a Pietro che Gesù stesso pone a capo della prima Chiesa. Se per una ragione qualsiasi dovessi cambiare nome hai mai pensato come vorresti essere chiamato?

3. Lo chiamerai…

«Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni» (Lc 1,11-13). Nella Bibbia a volte il nome non è scelto dai genitori ma viene indicato dall’alto. A me piace pensare che il nome di Gesù che è stato rivelato da Dio attraverso l’arcangelo Gabriele a Maria (Lc 1,33) e in sogno a Giuseppe (Mt 1,21) sia stato un elemento importante nella decisione di Giuseppe di prendere con sé Maria e di diventare, insieme alla sua sposa, collaboratore di Dio nel rendere possibile il progetto di salvezza che Dio nella sua infinita misericordia ha dato a tutti gli uomini. In quel nome, il medesimo rivelato ad entrambi, Maria e Giuseppe hanno visto la loro chiamata ad essere la famiglia di Dio. Il nome Yeshua’: Dio salva, era abbastanza comune nel mondo ebraico ed aveva un significato benaugurale perché indica in Dio la salvezza ma nel caso di Gesù esprime proprio: «Gesù è Dio che salva». Questo è tanto vero che l’appellativo con cui viene anche indicato Gesù, cioè «Cristo», è il titolo che lo definisce come Messia: Cristo, infatti, è la parola greca che traduce l’ebraico: Meshiah: unto, consacrato dal Signore per una missione di salvezza per tutti.
Molto spesso nelle raffigurazioni artistiche, nelle decorazioni dei paramenti liturgici, degli arredi o degli edifici dedicati al culto si trovano delle lettere associate alla figura di Gesù che meritano di essere conosciute per comprenderne il significato.

Le più comuni sono:

  • X e la P sovrapposte. Corrispondono, rispettivamente, alle lettere greche: «χ» – «chi» e «ρ» – «rho» e sono le iniziali della parola «Χριστός» (Khristòs).
  • IHS derivato dalle prime tre lettere del nome greco di Gesù, Iesus. Con san Bernardino da Siena queste tre lettere vengono interpretate come un acrostico latino di Iesus Hominum Salvator: Gesù Salvatore degli uomini.
  • IX: Iesus Khristos
  • ICXC è un acronimo ottenuto dalla prima ed ultima lettera delle due parole Gesù e Cristo scritte secondo l’alfabeto greco: ΙΗΣΟΥC ΧΡΙΣΤΟC = Iesus Khristos. Compare molto spesso sulle icone ortodosse, dove il monogramma può essere diviso: «IC» nella parte sinistra dell’immagine e «XC»» nella parte destra.
  • L’Alfa e l’Omega: (Α Ω maiuscole o α ω minuscole) sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Significano che Cristo è l’inizio e la fine di tutte le cose.

Ma ci sono ancora due elementi che meritano attenzione:

  • INRI: il Titulus Crucis normalmente posto sulla croce che è la scritta fatta apporre da Pilato al momento della crocefissione. È un acronimo ottenuto dalla frase latina Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, che significa: Gesù Nazzareno, re dei giudei.
  • Pesce in greco si dice IXΘYC (ichtus). Disposte verticalmente, le lettere di questa parola formano un acrostico: Iesus Christos Theou Uios Soter = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Il simbolo del pesce con o senza iscrizione è molto frequente nell’arte paleocristiana e precede la rappresentazione della croce.

4. Il nome di Dio

Il termine: “dio” è un nome comune che indica una entità assoluta, superiore all’uomo ma dio ha un nome? La parola più usata nella Bibbia ebraica per indicare dio è Elohim dalla radice El, comune a tutte le lingue semitiche: ebraico, aramaico, arabo. In arabo infatti è Ilah; preceduto dall’articolo Al (il) diventa Allah.
Nel corso della storia «Dio si è rivelato a Israele, suo popolo, facendogli conoscere il suo Nome. Il nome esprime l’essenza, l’identità della persona e il senso della sua vita. Dio ha un nome. Non è una forza anonima. Svelare il proprio nome, è farsi conoscere agli altri in qualche modo è consegnare sé stesso rendendosi accessibile, capace d’essere conosciuto più intimamente e di essere chiamato personalmente»[4]. Nella cosiddetta “rivelazione del Nome a Mosè” è Mosè stesso che chiede a Dio: «Mosè disse a Dio: “Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi””. Dio disse ancora a Mosè: “Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione». (Es 3,13-15) L’espressione: «Io-sono» viene scritta nella lingua ebraica con il cosiddetto tetragramma sacro: יהךה (JHWH): 4 lettere consonanti che gli Ebrei non pronunciano mai come forma di rispetto per il nome di Dio. Nell’uso liturgico, lo sostituiscono con l’appellativo «Adhonay», che significa «Signore mio» e anche in italiano spesso viene tradotto con il termine: «Signore».
Molto spesso nella Sacra Scrittura, per esempio nei Salmi e nelle parole dei profeti, ed anche nella liturgia Dio viene indicato come il nome di: «Santo» che non è semplicemente un titolo ma proprio il suo nome come ci ricorda anche Maria nel Cantico: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome». (Lc 1,49)
Gesù che porta a compimento la rivelazione di Dio ci svela un’altra caratteristica di Dio fondamentale per i cristiani e cioè che Dio è Trinità. Il Dio unico è una relazione di Amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo.
Una leggenda del tardo Medioevo racconta come un giorno Sant’Agostino, mentre passeggiava sulla riva del mare pensando alla Santissima Trinità fosse distratto da un bambino impegnato ad attingere acqua dal mare con una conchiglia per versarla in una buca che aveva scavato nella sabbia. Il santo si fermò e domandò al bambino: «Che fai? Perché ti affanni tanto a versar acqua in questa buca?» E il bambino rispose: «Voglio svuotare il mare e versarne tutta l’acqua in questa buca». Sorridendo il santo gli fece notare che non sarebbe mai riuscito, perché il mare è troppo grande e la buca tanto piccola. Allora il bambino guardò lungamente Agostino, poi aggiunse: «Io non posso svuotare il mare e farlo entrare in questa buca? E tu vuoi comprendere come è fatto Dio, che è infinitamente più grande del mare?». Detto questo il bambino s’illuminò di una luce celeste e disparve. Nella Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio a Roma Giovanni Lanfranco (1582-1647) ha dipinto, tra gli altri episodi, anche questa leggenda.
I cristiani possono conoscere la Trinità e intuirne la natura solo perché Gesù lo ha rivelato ma certamente questa è diventata l’identità dei credenti. Tutte le azioni liturgiche cristiane cominciano e terminano nel «Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» che accompagna anche il gesto del «Segno di Croce».


[1] Docente emerita ISSR “Vitale e Agricola” di Bologna.

[2] Omero, Odissea, IX, 364-370.

[3] A. D’Avenia, L’appello, Mondadori, Milano 2020.

[4] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 203.