Al momento stai visualizzando IL RITORNO AL SOMMO BENE. Studio su Romano Guardini

Francesco Perboni[1]

Abstract

Questo studio indaga la riflessione etica di Romano Guardini, mettendo al centro il concetto di Sommo Bene in quanto sorgente dell’ordine morale e cardine fondante della vita sociale. Analizzando le due definizioni di Bene proposte dall’autore si evidenzia il ruolo imprescindibile di un riferimento trascendente per il senso dell’esistenza umana. La critica di Guardini all’epoca postmoderna mostra come l’abbandono da parte dell’uomo dell’apertura all’incontro esistenziale col Sommo Bene lo abbia fatto scivolare nel nichilismo, cioè in una vita priva di significato, portandolo a una crisi personale e sociale. Guardini, però, intravede una possibile rinascita dell’umanità che avrà sperimentato il deserto di senso del nichilismo, in coloro che cercheranno onestamente la verità, e recupereranno la consapevolezza della necessità di un ritorno al Sommo Bene.

Introduzione

Questo articolo si pone l’obiettivo di approfondire la riflessione etica di Romano Guardini, evidenziando il ruolo imprescindibile del Sommo Bene nella costruzione di un ordine morale ontologico. La critica guardiniana dell’epoca postmoderna indicherà, poi, il ritorno al Sommo Bene, posto a fondamento dell’etica, come necessario antidoto al nichilismo che la caratterizza.
In primo luogo verrà esaminato il concetto di Sommo Bene nel pensiero di Guardini secondo le sue due definizioni fondamentali. Da un lato il Bene verrà descritto dall’autore come il giusto rispetto dell’essenza di ogni ente, ovvero della natura di ogni cosa della realtà, che si rende manifesta alla ragione della persona. Dall’altro lato, però, l’essenza del Bene verrà colta nella sua qualità di fenomeno originario indeducibile.
In seguito, sulla scorta della critica di Guardini all’epoca postmoderna questo studio tenterà di delineare i tratti del nichilismo che caratterizza il cambiamento d’epoca della nostra contemporaneità. Si mostrerà che, a causa dell’abbandono del Sommo Bene come istanza originaria e originante, l’uomo postmoderno abbia perduto il proprio orizzonte di senso, scivolando verso un nichilismo esistenziale e sociale. Tanto sul piano della vita interiore della persona, quanto sul piano socio-culturale, dunque, il Sommo Bene si rivelerà essere non solo l’unico possibile principio originario della vita etica e sociale, ma anche il necessario orizzonte di senso capace di dischiudere all’uomo il suo proprio fine. Solo la consapevolezza dell’ineludibile originarietà del Bene in quanto tale potrà restituire all’etica il suo fondamento perduto, e permettere così all’uomo di scorgere nuovamente il senso e il valore della vita che riluce manifestandosi negli enti.

1. Il Sommo Bene e l’essenza della verità

Per delineare i tratti del concetto di Sommo Bene secondo Guardini è necessaria una premessa sulla natura del soggetto proprio dell’etica: l’uomo. Secondo l’autore la libertà è lo specifico tratto della natura umana, che lo distingue dagli altri esseri viventi, poiché è la condizione di possibilità della sfera esistenziale della vita, cioè la sfera che rende possibile l’etica nel segno della responsabilità. Il libero arbitrio è la caratteristica precipua dell’essenza umana; e si manifesta in un rapporto, in una chiamata, che il soggetto agente riceve ad agire in un certo modo. A questa chiamata poi egli può rispondere in maniera positiva o negativa. Esiste l’uomo, il soggetto libero dell’etica, che viene chiamato ad agire secondo la verità, secondo l’essenza delle cose; ed esiste qualcosa, Qualcuno che chiama. È necessario che l’essenza sia accompagnata da un significato valoriale, è necessario cioè il riferimento al valore che una tal cosa ha per il soggetto agente, al fine di muovere o addirittura chiamare l’azione in un senso o nell’altro.[2] Il dato ineludibile, che richiede all’uomo un orientamento, poiché offre un significato valoriale dell’essenza del mondo, il senso luminoso che attraversa come una filigrana l’essenza di tutta la realtà, e che si manifesta come valore interpellando la libertà umana ad una risposta affermativa o negativa, è in ultima istanza il fondamento dell’intero edificio etico guardiniano: il Bene. Scrive Guardini:

«Libertà significa scelta tra possibilità, dire “sì” o “no” a qualcosa di dato, poter decidersi di fronte ad una esigenza. In ultima analisi, la possibilità di dire “sì” o “no” al bene, o, più esattamente, di poter dire di “sì” al bene, benché si possa anche dirgli di “no”».[3]

La presenza del bene che attribuisce un valore all’essenza delle cose è la condizione di possibilità dell’esistenza della libertà nel senso di una chiamata etica, cioè del modo specifico di abitare il mondo dell’essere umano. Solo se esiste il bene, può esistere la persona libera[4], interpellata dal bene a compiere la propria esistenza in un determinato modo.

Cos’è dunque il Bene secondo Guardini? Come già accennato, nel volume postumo Etica, la raccolta delle sue lezioni all’Università di Monaco dal 1950 al 1962, l’autore offre due risposte, due strade distinte, complementari ma non sovrapponibili, per approdare ad un’immagine di che cosa sia il Benenell’esperienza umana.[5] La prima definizione concepisce il Bene come dipendente dalla verità, dall’essenza vera delle cose:

«La prima risposta, che percorre, con numerose varianti, l’intera storia dell’etica, suona così: il bene è la verità dell’ente, nella misura in cui esso diventa oggetto dell’agire. Da ciò il concetto di verità riceve un carattere pratico, da ciò che è vero nasce quanto è giusto. E la risposta, nella sua esatta formulazione, recita: il bene morale è il giusto, quale risulta di volta in volta dall’essenza dell’ente. […] Riassumendo, il bene è quanto di caso in caso è giusto nella misura in cui si rivolge a me con un’esigenza».[6]

In tal senso si potrebbe dire che il bene è un valore, o meglio è l’attribuzione in ogni situazione particolare di un valore morale all’ente. L’essere umano può agire bene o male, in modo giusto o ingiusto, a seconda di quanto è disposto a comprendere l’essenza delle cose nel suo aspetto valoriale e ad agire in conformità ad essa.[7]
Nonostante la fondamentale importanza di questo approccio, da solo risulta insufficiente a cogliere la profondità del Bene; e, limitandosi a questo modo di vedere le cose, senza cioè implementare nel concetto di bene fin qui espresso anche la sua seconda definizione, si incorrerebbe secondo Guardini in due rischi principali. In primo luogo, si potrebbe rischiare di pensare che sia possibile dedurre il bene dall’analisi di tutte le situazioni circostanziate in cui esso si manifesta come verità della realtà; e conseguentemente che esso si possa comprendere come la somma di tutte le singole virtù morali. In secondo luogo si rischia di dissolvere l’istanza valoriale nella semplice esecuzione della verità razionalmente compresa dall’intelletto, perdendo di vista il ruolo della libertà umana e del pathos dell’agire umano, riducendolo a una serie di emozioni in una visione razionalista dell’etica. Il tranquillo rigore che deriva dal comprendere il legame tra verità ed etica può in questo modo cadere in un rigido intellettualismo che non riesce più a percepire il pathos dell’agire etico e che dissolve il peso della libertà umana nella dimensione noetica.[8]

Vediamo quindi in che modo l’autore presenta la seconda definizione di Bene:

«La seconda definizione di bene ha un punto di partenza diverso. Quando si intende il bene come il giusto e si vede il suo carattere morale nel fatto che la giustezza delle cose è stata affidata alla responsabilità dell’uomo, non emergono ancora in maniera giusta lo specifico carattere di valore e la peculiarità qualitativa del bene come tale. La qualità di valore della verità minaccia di razionalizzare questo bene. Se entriamo in sintonia con ciò che il termine “il bene” vuol significare, constatiamo che non può essere risolto nel vero, ma che è un dato originario che può essere colto solamente in se stesso ed essere compreso solamente partendo da esso. Il bene è appunto il bene».[9]

Avviene qui una radicale inversione dei termini. L’essenza del Bene non può essere dedotta a partire da altro che non sia il Bene stesso, esso «è un fenomeno originario», e «i fenomeni originari non si possono dedurre».[10] Non solo, quindi, il Bene non potrebbe mai essere pienamente compreso in quanto semplice sommatoria delle diverse virtù morali, ma soprattutto non è il Bene a poter essere dedotto induttivamente dall’essenza degli enti, perché è esso stesso a conferire alle essenze il loro valore morale. È questo che si può rischiare di perdere di vista, abbracciando una concezione etica di tipo razionalistico. Si pensa di poter ridurre il bene ad un’astrazione generalizzata delle varie istanze valoriali espresse dal contenuto veritativo essenziale della realtà che si manifesta; invece il bene è il fondamento del valore che riluce in ogni ente, ne è la sorgente originaria. Per questo esso è «il donatore di senso per eccellenza; è incondizionato».[11] L’astrazione concettuale ottenuta dalla generalizzazione del particolare nel processo induttivo è come un fantasma, una proiezione intellettuale ricavata dall’unica realtà esistente che è quella particolare, singolare. Invece, è di radicale importanza comprendere che il bene sta a fondamento dell’esperienza della realtà particolare, e, se lo si prendesse in considerazione solo come astrazione, sarebbe l’esperienza stessa che verrebbe a mancare:

«Il bene è “sé stesso”. Per coglierne il significato essenziale non abbiamo bisogno, e neppure ci è lecito, di rifarci ad altri dati; infatti, non appena l’essenza del bene ci sfiora, riconosciamo subito che il bene è proprio ciò che conferisce il vero significato a tutti i dati dell’esistenza e non che questi ultimi lo fondano.»[12]

«Non ci è lecito», scrive Guardini, perché sul piano logico non sarebbe corretto fare riferimento a qualcosa d’altro, all’essenza di qualcos’altro, per determinare l’essenza di ciò che è il donatore di senso per eccellenza di tutte le essenze. Sarebbe un ragionamento circolare poiché dovrebbe utilizzare, nei passaggi della sua deduzione, degli elementi il cui fondamento è proprio ciò che si vuole dimostrare. Il bene è il fondamento assolutamente semplice del senso dell’essenza del mondo.

Non solo, lo è anche di quella del soggetto stesso che a lui si approccia:

«Chi si accosta effettivamente al fenomeno del bene riconosce immediatamente che esso è semplicemente quel che è e che lui stesso è determinato dal bene nel suo essere e cioè come l’essere che deve fare il bene.»[13]

Noi non ci approcciamo all’essenza del bene così come a quella di un qualsiasi altro ente, poiché, a differenza di quanto avviene con gli enti, avvertiamo di essere noi stessi determinati dall’essenza del bene. In questo, secondo l’autore, risiede la differenza più importante tra una forma filosofica critica pura ed una forma filosofica che si apre alla dimensione religiosa, la filosofia del cuore. La filosofia più autentica, quando riconosce chiaramente l’essenza del Sommo Bene, si trova davanti ad un fenomeno indeducibile che richiede l’apertura ad una esperienza insieme noetica ed esistenziale, un’esperienza che trascenda il piano della pura e semplice filosofia deduttiva e che approdi nell’evento religioso. Sul fondamento di questo evento sorgivo allora diviene possibile l’intero edificio sistematico e filosofico.[14] Secondo Guardini questo incontro fondamentale con il fenomeno originario del Bene, che coinvolge l’uomo nella sua interezza e che lo determina anche eticamente, è per eccellenza e per definizione il fenomeno religioso, l’esperienza religiosa nel suo nucleo più profondo. Giungiamo così alla consapevolezza del fatto che, in ultima analisi, il Sommo Bene, altro non è che Dio stesso. Le due definizioni di Bene fornite dall’autore si incontrano nella visione di Dio offerta dalla rivelazione:

«Dio è il bene. Dio realizza in sé stesso non un bene che stia al di sopra di Lui, ma il bene comincia in Lui. Il bene è il nome di Dio, in quanto formulato a partire dal significato. Per questo motivo, ciò che Dio esige per il fatto che è Lui a esigerlo, è l’esigenza posta dal bene; ma vale anche la formulazione rovesciata: l’esigenza posta dal bene è, in quanto tale e in modo essenziale ed originario, l’esigenza del Dio reale. […] L’intero essere di Dio è buono, l’intero bene ha l’essere in Dio. L’identità del bene e dell’essere ha nome “Dio”.»[15]

2. La nostra epoca e il nichilismo

È tenendo presente quanto fin qui si è affermato che ci approcciamo ora alla critica guardiniana dell’epoca postmoderna. Abbiamo mostrato come per Guardini l’orientamento etico dell’uomo rispetto al valore degli enti, e la determinazione della sua vita esistenziale siano fondati nell’incontro aurorale con il Sommo Bene, nell’evento religioso dell’incontro con Dio.
Il nichilismo, d’altra parte, si qualifica secondo l’autore come conseguenza del distacco dell’uomo dal suo fondamento nel Sommo Bene. Vediamo in che modo Guardini definisce questa corrente filosofica che attraversa il pensiero contemporaneo:

«[Nichilismo] è una derivazione dal latino nihil, che vuol dire nulla, e si riferisce a una costellazione di idee, a una concezione ma anche a una situazione psichica e spirituale dell’uomo in cui il nulla ha una particolare importanza. Con ciò non si intende dire che quei pensatori si siano occupati del problema del nulla, che si siano chiesti ad esempio che cosa siano il nulla assoluto e il nulla relativo, che cosa sia lo zero ecc. Qui piuttosto si tratta di un’umanità in cui il nulla opera, dove una nullità dell’esistenza arriva alla coscienza, dove si compie un annientamento della vita – ma tutto questo in modo che l’uomo continua a vivere».[16]

Il nichilismo è la condizione umana esistenziale in cui il nulla opera e in cui si compie un annientamento della vita, pur continuando l’uomo a vivere. Questo annientamento è percepibile in ogni ambito culturale e vitale: dalla filosofia alla scienza, dall’etica alla politica, dalla psicologia all’antropologia. Come una pianta ormai allontanata dalla sua sorgente d’acqua avvizzisce e sfiorisce, anche l’esistenza umana, allontanatasi dal fondamento sorgivo dell’essere gradualmente smarrisce il senso della propria esistenza e, in ogni aspetto della vita, percepisce la presenza operante del nulla. In tale condizione viene meno la capacità di scorgere il valore della realtà, di percepire «l’incondizionatamente valido» che possa dare un senso al divenire. È perduto il senso di certezza spirituale nella coscienza, poiché è perduto l’evento sorgivo di incontro con il Sommo Bene, che si manifesta con la luminosa e sovrabbondante evidenza in grado di donare senso anche alla stessa realtà. Scrive Guardini:

«Pensiamo all’esperienza dell’angoscia che non nasce da qualcosa di determinato, ma è uno stato dell’animo e segnala che l’esistenza è messa in discussione; pensiamo al sentimento della noia, a quello del vuoto; pensiamo alla situazione in cui le cose perdono realtà e importanza, diventano prive di senso; pensiamo alla nausea e alla disperazione… Chiunque osserva la vita di oggi può constatare che questi stati d’animo sono frequenti e forti, tanto frequenti e forti che in essi si manifesta l’enorme tenacia della volontà di vivere, di una volontà che ciononostante mantiene l’esistenza».[17]

Pensiamo anche alla nostra esperienza di educatori nel contatto con i giovani. Sono quanto mai attuali queste parole di Guardini che già diversi decenni fa constatava un fenomeno che oggi è ormai talmente diffuso da essere sotto gli occhi di tutti.
L’angoscia descritta dall’autore in questo cambiamento epocale per il rapporto dell’essere umano con il mondo si accompagna ad una peculiare forma di superbia, di hybris. Perduto il contatto con la propria sorgente di senso, l’essere umano tenta di fondare la realtà poieticamente, ponendone il fondamento in sé stesso. L’umanità si rapporta alla natura in un modo completamente nuovo, e tenta di esercitare su di essa un dominio tale da rifondarla, e da conferirle il senso che ha perduto con lo sradicamento dal Sommo Bene. Per questo motivo essa si trova in un costante stato di angoscia. Avverte il disgregarsi del significato di ogni cosa intorno a sé, mentre prova angosciosamente a fuggire dalla propria finitudine. Il proprio limite creaturale si rende evidente, mentre la realtà intorno si dissolve nel deserto del nulla. L’uomo, volendo ignorare il proprio limite, e ponendosi al posto di Dio a fondamento dell’edificio ontologico ed etico, assiste impotente alla manifestazione del suo proprio limite e al disgregarsi del suo progetto prometeico. L’angoscia esistenziale del nichilismo è causata da «un nulla che, a chiunque è in grado di discernere, rivela che qui qualcosa si è rovesciato: è il fantasma di Dio».[18]

Al dissolvimento angoscioso della realtà attorno alla crisi della vita esistenziale della persona, corrisponde un analogo dissolvimento delle strutture dell’ordine sociale:

«La famiglia perde il suo significato di articolazione e di ordine. La comunità, la città, lo Stato si reggono sempre meno sulle famiglie, le parentele, i gruppi di lavoro, le classi ecc. Sempre più gli uomini appaiono come moltitudine informe, organizzata senza uno scopo».[19]

Poiché esiste un legame indissolubile tra Bene, etica e persona, con la morte esistenziale della persona, anche lo Stato perde il suo fondamento e la sua capacità di vincolare i cittadini nella libertà. Senza una weltanschauung collettiva viene meno l’elemento che può vincolare i cittadini all’obbedienza nella libertà, in coscienza, sulla base di un riconoscimento condiviso della verità. L’unica possibilità che rimane allora allo Stato per continuare ad esistere, forzando i cittadini all’obbedienza, è l’uso della violenza, nelle sue più varie forme, da quelle fisiche a quelle di manipolazione ideologica o propagandistica. Il crollo del vincolo dell’ordine morale del bene, determinato da una concezione di Stato che non vi fa più alcun riferimento, corrisponde all’impossibilità di trovare un fondamento coerente al sistema legislativo alternativo all’uso della violenza.[20] «Il risultato» constata Guardini «è lo Stato assoluto, senza volto e inafferrabile, al quale l’uomo è totalmente consegnato».[21] Conclude l’autore:

«Senza elemento religioso la vita diviene come un motore che non ha più olio. Si riscalda, ad ogni momento qualche cosa si brucia, e dappertutto si smuovono pezzi di ingranaggi. Il centro ed i raccordi si spezzano. L’esistenza si disorganizza e si produce quel corto circuito a cui assistiamo da trent’anni ed in proporzioni sempre crescenti: si usa la violenza e si cerca così una via d’uscita alla perplessità impotente. Dal momento che gli uomini non si sentono più uniti dal di dentro, vengono organizzati dal di fuori. Ma a lungo andare si può esistere sotto la costrizione?».[22]

Conclusione – le ragioni della speranza

Davanti a una tale critica dell’epoca postmoderna si potrebbe pensare che il pensiero di Guardini sia quantomeno caratterizzato da un certo pessimismo. Queste sono le stesse obiezioni che vennero mosse all’autore rispetto alle sue opere La fine dell’epoca moderna e Il potere. Egli le respinse poiché un pessimismo di fondo nella lettura della realtà non si addice ad un autentico spirito cristiano del pensiero e nemmeno ad uno spirito virtuoso. Abbiamo deciso, quindi, di intitolare la conclusione in questo modo perché intendiamo offrire, sulla scorta del pensiero di Guardini, delle prospettive di speranza, e mostrare degli scorci luminosi che si intravedono all’orizzonte.
Nel suo scritto Il potere Guardini descrive le qualità dell’uomo che in futuro dovrà fronteggiare questi sviluppi epocali. Quest’uomo sa nuovamente «comandare e obbedire», e sa ripristinare l’ordine amorevole della città. Quest’uomo sa ristabilire le sorgenti del potere nella fonte assoluta, donatrice di senso, che è il Sommo Bene. Egli sarà consapevole del fatto che non esiste per lui la possibilità di dominare il potere, se non è in grado di dominare sé stesso. Non crede più ingenuamente nella sola bontà della propria natura, ma sa che essa è ferita e debole. Quindi dovrà possedere «un rinnovato senso per l’ascesi».[23] Per potersi assumere nuovamente la responsabilità etica del proprio potere egli «deve riconquistare il giusto rapporto con la verità delle cose, con le esigenze del suo io più profondo, infine con Dio».[24] Anche solo a partire dagli sforzi di un’onestà intellettuale di fondo, di una lealtà razionale, un uomo siffatto svelerebbe gli inganni del rovesciamento prometeico nichilista nella cultura, mostrando che ancora si nutre degli echi di un fondamento che non possiede più.
Un esempio dell’emergere di questo nuovo tipo di umanità si può intravedere anche nello svolgimento della professione educativa. I giovani di oggi sono talmente stanchi di questo deserto di senso, così onnipervasivo e amplificato dalle casse di risonanza massmediatiche, che non appena scorgono i barlumi rutilanti del valore, si sentono ardere. Essi non avvertono solo la presenza di un angosciante fantasma di Dio. Sentono piuttosto la chiamata del Bene, e sono propensi a coglierne l’importanza, se sollecitati a viverla come l’avventura della loro vita, l’avventura della responsabilità, capace di dare senso e colore all’esistenza. Conoscono ormai fin troppo bene il modo in cui la vita sta perdendo il suo significato, e se è vero che si sentono spesso scoraggiati, è altrettanto vero che sono tanto assetati di quel senso ultimo che solo Dio può offrire.


[1] Docente IRC presso l’Istituto di Istruzione Superiore Lazzaro Spallanzani a Castelfranco Emilia (MO) e presso l’Istituto Arrigo Serpieri a Bologna.

[2] «L’“essere”, o più esattamente l’“ente”, è ciò che ci viene incontro continuamente, costringendoci a constatarlo e a fare i conti con esso. Un “valore” è invece una caratteristica, reale o possibile, di un ente particolare, a cui il valore conferisce un particolare significato. […] Nelle nostre considerazioni, quindi, parleremo di “valore” intendendo sempre, con questo termine, il carattere che in ogni circostanza incontrata ci fa avvertire l’esistenza come un fatto positivo o negativo.» R. Guardini, Etica, ed. it. a cura di M. Goldin – D. Pellizzari – C. Fedeli – G. Poletti – M. Nicoletti – G. Colombi, Morcelliana, Brescia 2001,28-30.

[3] Ivi, 212.

[4] «Senza il bene la persona non può essere assolutamente. Il rapporto con esso, come quello con la verità, è la forma essenziale della sua sussistenza e del suo comportamento […]. Appena appare il bene, appare la persona; ogni volta che il bene viene riconosciuto, avvertito, sottoposto a decisione, affermato o rifiutato, subito lì v’è la persona.» Ivi, 213.

[5] «Non appena si è compreso che i diversi tentativi intrapresi dalla sociologia, dalla psicologia e persino dalla biologia per spiegare il bene non riescono assolutamente ad approssimarsi alla sostanza del fenomeno, si vede che ci sono due strade per determinarne l’essenza. Queste due modalità di determinazione attraversano tutta la storia del pensiero etico. Si completano l’un l’altra, si compenetrano, ma non sono riconducibili l’una all’altra» Ivi, 1100.

[6] Ivi, 50-51.

[7] «Egli [l’uomo] può agire bene o può errare, e per far bene deve essere nuovamente pronto a quella condotta che già Platone aveva riconosciuto come il compendio del dovere umano: la “giustizia”, ovvero la volontà di riconoscere l’essenza delle cose e di fare ciò che è giusto di fronte ad essa.» R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, ed. it. a cura di M. P. Valier, Morcelliana, Brescia 2022, 190.

[8] «Lo sguardo del realismo razionale collega tanto strettamente il bene alla verità dell’essere, da esporsi continuamente al pericolo che il bene sia assorbito nella verità. Non gli è sufficientemente chiaro che cosa sia il bene in quanto tale, non riconosce l’elemento specifico che caratterizza l’esigenza della bontà, non sa per quale ragione il bene, pur realizzandosi concretamente nel vero qui ed ora, sia pur sempre qualcosa d’altro rispetto a questo.» R., Guardini, Etica, op.cit.,57.

[9] Ivi, 1103.

[10] Ivi, 45.

[11] Ivi p. 47.

[12] Ivi p. 46.

[13] L. cit. (Localmente citato).

[14] «Agostino in fondo non era affatto un filosofo nel senso criticamente puro e semplice del termine. Mi sembra anzi – e ho cercato di motivarlo nel mio libro su Socrate – che nemmeno Platone lo fu. Qui si situa l’aspetto decisivo che indusse a distaccarsi da lui il suo allievo per tanti anni Aristotele, perché quest’ultimo era un filosofo puro e semplice, mentre nel pensiero di Platone gioca un ruolo onnipervasivo il momento religioso.» R., Guardini, Eternità e Pensiero, la determinazione dell’esistenza nel pensiero di Platone e Agostino, ed. it. a cura di O. Brino, Morcelliana, Brescia 2017, 204-205.

[15] Guardini, Etica, op.cit., 481.

[16] Ivi, 1011.

[17] L. cit..

[18] Ivi, 993.

[19] Guardini, La fine dell’epoca moderna, op.cit., 158.

[20] «L’ordinamento costituito a partire dallo Stato e messo di fronte al singolo cessa di essere vincolante nel più profondo: meditando a fondo su questo fenomeno, ci si accorgerà che, senza il riferimento a Dio, non è possibile fondare un’autentica validità della legge che sia vincolante in coscienza, perché in tal caso si è costretti a fondare la legge solo sulla sua funzionalità ad uno scopo, nella sua utilità, il che dà diritto al giudizio del singolo di valutare l’idoneità, e quindi anche la validità, della legge» R. Guardini, Etica, op.cit., 353; cf. Ivi,467).

[21] Ivi, 1005.

[22] Guardini, La fine dell’epoca moderna, op.cit., 98.

[23] Id., Etica, op.cit., 199-200.

[24] Ivi, 206-207.